C’è del sacro in… Dino Buzzati

Dal romanzo “Il deserto dei tartari” al racconto “Il disco si posò”, storie che non danno risposte ma accendono le domande giuste. Innalzandosi oltre i limiti del materiale, nonostante le apparenze di un equivocato “cinismo letterario”

1992, primo anno di scuola superiore. Ora di Italiano.

La professoressa Annamaria Guglielmino ci spiegava l’importanza dei libri, della sana “abitudine” (e su questa parola torneremo alla fine…) di coltivare lo spirito e l’intelletto attraverso delle buone letture che, oltretutto, avrebbero dato a noi ragazzi la gioia di vederci spalancare l’occhio dell’immaginazione, di scoprirci in decollo verso orizzonti d’immagine e di pensiero di cui, a dispetto di qualunque autore, gli artefici saremmo stati noi. E una generazione come quella, che iniziava a mostrare già qualche sintomo di atro­fia del tra­scen­dente (che oggi sembra essere malattia conclamata), riceveva l’invito della docente con quel medesimo stato d’animo che, seppure in un contesto diverso ma non del tutto estraneo, Matteo stigmatizza nel suo Vangelo: “Udito questo, il giovane se ne andò triste”.

Per capirci, la “tristezza” tutta adolescenziale del capire l’antifona… di comprendere cioè che, nell’in­ten­zione della Prof, c’erano per tutti noi prospettive alquanto preoccupanti: dover prendere un libro e dover “veramente” imparare a leggere. Figuriamoci l’entusiasmo! Oggi un “che palle!” risuonerebbe senza alcuna difficoltà nell’aula; in quegli anni, invece, le vestigia di un certo modo di essere ci fecero propendere per un prolungato e generale mugugno, specie nei maschietti… Ma la Prof non si arrese, e come ogni buon educatore seppe rischiare l’impopolarità facendoci capire che, se da un lato non avevamo scelta, dall’altro lei ci avrebbe reso l’impresa meno ardua e faticosa di quanto pensassimo. “Cominciate con un bel racconto!”, disse, tirando fuori dalla cartella di cuoio un fascicoletto di fotocopie pinzettate. E continuò: “Questo lo potete leggere tutti! A chi lo do per primo?”. Nel giro di qualche giorno, passandocelo a staffet­ta, ciascuno di noi ragazzi lesse quel racconto e trascrisse sul proprio quaderno le impressioni emotive, le parole che gli erano piaciute, e le atmosfere che lo avevano colpito. Alla fine, mettendo insieme tutto questo, la Prof ci fece fare un lavoro di scrematura, evidenziando tutti gli elementi comuni che ciascuno di noi aveva messo in rilevo senza sapere che gli altri compagni erano stati raggiunti dalle stesse suggestioni: “Avete detto molte cose differenti, ma in alcune siete stati tutti concordi: le atmosfere surreali, la capacità descrittiva dell’Autore, l’inquietudine sempre crescente, la potenza introspettiva del racconto! Con parole diverse, tutti voi avete notato questi elementi! Quindi, per quello che ci riguarda, avete condiviso un comune orizzonte di lettura: questo orizzonte è lo spazio del nostro Autore! È il cortile dove lui ama passeggiare e dove ciascuno sa di poterlo sempre trovare! Lo avete smascherato!”

Il prolifico Buzzati

L’autore era Dino Buzzati, smascherato da una ventina di quattordicenni, e il racconto era “Il mantello”. Il mio primo racconto di Buzzati… Come dimenticarlo? Il primo sorso ad una bottiglia non ancora esaurita!

Storico giornalista del Corriere della Sera, Buzzati nacque a San Pellegrino di Belluno nel 1906 e morì a Milano nel 1972. Senza prenderci la briga di stilare una biografia particolareggiata, di lui diremo sostanzialmente che fu un prolifico amante della macchina da scrivere. Dando un’occhiata alla sua bibliografia, e soffermandosi poi un momento a capire quanto fosse impegnato come cronista e redattore, c’è da chiedersi dove trovasse il tempo per sfornare tutto quel materiale! Se a questo si aggiunge anche la sua passione per l’alpinismo, per la pittura, e i suoi continui viaggi come inviato, ci si sente quantomeno inadeguati! Noi, che diciamo sempre “non trovo mai il tempo!”…

Racconti (ma proprio un’infinità di racconti!), cronache di ogni genere, critiche ed elzeviri, opere illustrate da lui stesso, quadri a non finire, e sei romanzi! Più tantissimo altro materiale.

Raccontare, consegnare qualcosa di proprio

Riprendendo le parole di una mia amica, e applicandole a lui, credo proprio che Buzzati “spacciasse per lavoro le sue passioni”! Questo dimostra, ad esempio, come ogni elemento squisitamente giornalistico, e quindi professionale, diventasse nella sua Olivetti un “racconto”, e non in quanto “genere letterario”, ma in quanto stile comunicativo! Buzzati non poteva esimersi dal raccontare! La crisi narrativa del primo Novecento trovò in lui un “turpe monatto”, un uomo capace di restarne totalmente immune! Per lui scrivere, dipingere, redigere una cronaca, e persino accumulare appunti di viaggio, coincideva sempre con una consegna di se stesso perché, in fin dei conti, chi racconta fa questo: consegna qualcosa di proprio! E chi consegna qualcosa di proprio non può che raccontare.

Ateo, con una scrittura metafisica

Dino Buzzati si definiva ateo, in un periodo in cui questa parola non indicava ancora né una moda né un facile alibi al vuoto di pensiero di chi ha rinunciato all’indagine dell’essere. L’ateismo di Buzzati, come quello di tanti suoi contemporanei, era più una risposta filosofica a mille domande senza risposta, per le quali egli non si sentiva di sostituire a tutti i costi un punto interrogativo aperto sul senso del mondo con un punto esclamativo che avrebbe rischiato di chiudere e concludere l’orizzonte di ogni questione legata al fatto umano e soprannaturale. Ciò significa che, nell’ateismo di Buzzati, non si trovano dei “no” alla possibilità di Dio; si incontrano piuttosto descrizioni talmente ampie sul fenomeno umano e cosmologico da lasciare spazio a tutti: a chi Dio l’ha incontrato, a chi no, e a chi non si pone il problema. Buzzati non scrive né sulla Sua esistenza, né sulla Sua non-esistenza; però il suo modo di scrivere è metafisico, e s’innalza sempre oltre i limiti del materiale, nonostante le apparenze di un equivocato “cinismo letterario”.

Materialismo trascendente

Potremmo dire così: Buzzati è l’esempio di un “materialismo trascendente”, di un tipo di letteratura che ama inchiodare a terra i suoi soggetti narrativi per poi guardarli e descriverli dall’alto. Un po’ come Picasso, che lascia scontenti solo i “poveracci di spirito” (che non hanno nulla a che vedere con le Beatitudini), Buzzati fa a pezzi le sue creature letterarie, le scompone in piccole componenti esistenziali, le viviseziona senza anestesia per poi ricomporle in forme concettuali straordinarie, dove ogni parte della materia “raccontata” viene riportata alla sua origine di senso! I suoi racconti sono frammenti di iperuranio! E chi lo legge se ne accorge, perché viene coinvolto in questo violento e inquieto procedere. Non dimentichiamo che Buzzati discende da un’antica famiglia di fabbricatori di armi! Era allenato ad affilare le idee, perché sapessero creare dei tagli profondi lì dove normalmente un lettore non ama essere toccato: per esempio nelle sue più profonde paure e angosce, nelle sue ansie generate dalle competizioni sociali di classe (per esempio in quegli organigrammi e in quelle gerarchie tutte italianamente documentabili, di cui Villaggio divenne successivamente un altro acuto osservatore), nei suoi oscuri tremori causati dalla solitudine e dall’incompletezza, nel suo terrore per ciò che rimane indeterminato e inconosciuto, nelle sue sofferenze morali causate dalla vittoria della carne sullo spirito, e così via…

Il significato dell’esistenza

E poi, poi c’è l’idea madre di tutte le altre, quella che in fin dei conti fa da base alla gran parte delle sue opere: il significato dell’esistenza. Buzzati scrive non con la penna, ma col microscopio prima e col telescopio dopo. All’inizio descrive le piccolezze dell’uomo comune, che sa mascherarsi più o meno bene anche nelle vesti del personaggio socialmente realizzato; e poi ti fa vedere a quali altezze queste miserie vorrebbero arrivare! Ti mostra prima gli atomi dell’uomo imperfetto e misero, e poi le galassie del suo (nebuloso) desiderio! Anzi, se il desiderio è letteralmente “ciò che viene dalle stelle” (“de” + “sideribus”), ovvero ciò che per senso di difetto ci spinge a ricercare le nostre origini in qualcosa di infinitamente più grande di noi, allora Buzzati è il chimico e l’astrofisico che sa percorrere perfettamente questa strada dal basso verso l’alto, con la genialità di non saper (o di non voler) mai arrivare! L’ateismo di Buzzati è proprio questo: un non voler mai arrivare alla fine della questione, un voler costruire una strada sulla quale ci si possa incamminare per un lungo viaggio, senza però poterne scorgere la meta o conoscerne gli esiti.

Il tedio disumano e l’attesa nella Fortezza

Ed è proprio una strada lontana, lontanissima, osservabile solo col cannocchiale di una vedetta, quella che fa da sfondo al suo capolavoro: Il deserto dei Tartari.

In questo romanzo, un giovane sottotenente di prima nomina, Giovanni Drogo, viene mandato in servizio in una fortezza di confine, la Fortezza Bastiani. Attenzione: l’Autore non ci dice né il tempo né il luogo della storia, e ci fa capire subito, così, che la contestualizzazione esatta è quella esistenziale del lettore. La fortezza sorge sul confine con un arcaico e immenso deserto, quello dei Tartari. E questo popolo nemico è ormai così ancestrale, così lontano dai ricordi dei soldati, da essere allo stesso tempo pericoloso quanto terribilmente indefinito. La fortezza sta lì, semplicemente perché questi Tartari stanno dall’altra parte del deserto e potrebbero giungere da un momento all’altro. Ma questa distanza tra “un momento” e “l’altro” si prolunga all’infinito, come un paradosso di Zenone, costringendo ad un tedio disumano i militari che prestano servizio nella fortezza. In questo “infinito” senza soluzione si consuma la vita del giovane sottotenente il quale, pur avendo avuto la possibilità di essere trasferito altrove, rinuncia! Baratta le comodità di un più tranquillo incarico con la scommessa di un’attesa! Trasforma la sua esistenza in un eremitaggio silenzioso e teso verso un evento decisivo, fosse anche una sanguinosa guerra, purché qualcosa di importante dia significato alla sua vita. I gradi si accumulano sulle sue spalline, come le rughe sulla sua fronte, e come gli acciacchi della vecchiaia e le diplomatiche offese dei suoi finti amici. Il vero deserto diventa l’attesa spasmodica di una risoluzione, di un giorno che possa ripagare un’esistenza, unico rimedio alla noia dell’essere.

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Il senso del ricercare un senso

Drogo si affaccia dalla merlatura gialla della torre, e vede, anno dopo anno, che qualcuno sta costruendo una strada sul confine dell’orizzonte di quel deserto. Saranno i Tartari? Sarà finalmente la guerra? Sarà finalmente quel “Qualcosa” per cui ho vissuto? Non si sa… Leggetevelo se non l’avete ancora fatto. Se anche voi attendete qualcosa, comprate questo libro, che riassume tutto l’Autore e tutto il Lettore in un’unica indescrivibile alchimia. In effetti, c’è un po’ di Drogo in ogni uomo, perché ogni uomo è teso verso il compimento di se stesso. Ma il libro apre questioni interessanti anche “sul senso stesso del ricercare un senso”! In altre parole, diventa un testo metalinguistico, metafisico, metatuttoquellochevolete. Ci porta comunque da un’altra parte, e questo è quello che ci serve. Ci fa percorrere una strada dal basso verso l’alto, mettendo quel deserto nel mezzo che altro non è se non la nostra vita.

Raggiungere il desiderio

Sì, c’è del sacro in Buzzati. Questo libro non dà risposte, ma ti accende le domande giuste! E ti accorgi, semplicemente leggendolo, che sei ancora “separato” (sacrós) da ciò che desideri, e che hai però il potere di raggiungerlo. E che vuol dire poi “raggiungere il desiderio”?

Concludo questo pensiero su Buzzati ripassando brevemente un altro racconto, giusto per chi volesse lasciarsi corteggiare ancora un po’ dall’eventualità di aggiungere qualche buon libro sullo scaffale.

La Sua misericordia

Il disco si posò, altro piccolo gioiello. Dove un povero prete di campagna riceve l’inaspettata visita di due alieni, forme di vita estremamente evolute, come la loro tecnologia che li ha resi gli incontrastati viaggiatori e conoscitori dell’universo e di tutti i suoi segreti. Eppure, incuriositi, scendono sulla terra perché non comprendono a cosa servano tutte quelle “strane antenne” che si trovano su alcuni edifici, o che sbucano numerose da terra, in campi fatti apposta per loro. Il curato comprende che si riferiscono alle “croci”, e spiega loro di che cosa si tratta. Sono segni che ricordano all’uomo un grande sacrificio, consumato dal Figlio di Dio per redimere l’uomo dal peccato. Gli alieni, però, non comprendono questo concetto. Cos’è il “peccato”? Loro non lo sanno. E il prete continua a spiegare: è il frutto della disobbedienza dell’uomo a Dio. “E quando l’uomo ha disobbedito a Dio?”, chiedono essi pieni di curiosità. “La prima volta” risponde il prete “è stata quando hanno mangiato il frutto proibito, dall’albero che stava al centro del giardino”. Gli alieni si guardano stupefatti, ma anche un po’ soddisfatti, ed esclamano: “Sul nostro pianeta quell’albero è ancora intatto!”. Il prete capisce tutto in un istante: “Quegli esseri non hanno mai interrotto la loro relazione con Dio, non gli hanno mai disobbedito, non hanno mai violato il patto di alleanza con Lui! Ecco perché si sono evoluti in questo modo! Ecco perché l’universo gli appartiene totalmente e possono muoversi liberamente da un confine all’altro di esso! E noi invece siamo ancora schiavi delle malattie e della morte! Del peccato e della nostra miseria!”. E proprio mentre l’invidia sta per prendere il sopravvento nel cuore del sacerdote, ecco che un’altra consapevolezza gli si fa strada: “No! Voi siete ancora indietro! Non vi siete evoluti! Siete ancora piccoli piccoli! Non conoscete ancora tutto! Non conoscete nulla, in realtà. Non conoscete la Sua misericordia!”.

C’era una parola, all’inizio di questo trafiletto, rimasta in sospeso: “abitudine”. Ci si può veramente “abituare” alla lettura? E alle cose belle in genere? Continuerebbero ad essere belle se lo scoprirle diventasse un’abitudine? E se invece volessimo trasformare l’abitudine della lettura in un habitus, in una virtù? Allora Buzzati ce ne darebbe senz’altro un’ottima occasione, perché a lui non ci si può abituare mai. Come lui non mai si abituò alla bellezza delle Dolomiti. Si tratta sempre di andare un po’ più in su… un po’ più in alto…

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2 pensieri su “C’è del sacro in… Dino Buzzati

  1. Stella dice:

    “Non vi è nessun ambito della Conoscenza e della Cultura che non possa aiutarci a parlare di Dio, perché tutto ciò che è conoscibile e coltivabile dalle nostre facoltà ci è stato rivelato.”
    È questo che la rende speciale! Grazie per tutto ciò che mi ha insegnato e per tutto ciò che ancora vorrà insegnarmi

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