Lupo: «Io, Milano, il Sud, Vittorini e la sindrome di Totti»

L’autore de “Gli anni del nostro incanto” racconta decenni cruciali della storia d’Italia attraverso le vicissitudini di una famiglia: “Il Meridione va raccontato non secondo vecchi stereotipi, ma servono categorie e linguaggi nuovi. Mi sento fedele a Marsilio come le bandiere del calcio…”

In giro per l’Italia per presentare il suo ultimo romanzo «Gli anni del nostro incanto» (156 pagine, 16 euro), edito da Marsilio, Giuseppe Lupo ha fatto tappa in Sicilia («E spero di tornarci nei prossimi mesi, magari tra Palermo e Catania»), a Scicli. È stata l’occasione per un dialogo sulla sua narrativa, sui suoi poli spaziali, certe passioni letterarie e non solo.

Lupo, nel suo ultimo romanzo racconta le vicissitudini di una famiglia di meridionali a Milano, tra anni Sessanta e Ottanta. Una lunga metafora della recente storia italiana?

«Vivo nel capoluogo lombardo dall’estate 1982 (quella dei Mondiali vinti in Spagna dagli azzurri, e in quei giorni si apre il romanzo, ndr), i luoghi di cui parlo fanno parte della mia storia personale. La Milano degli anni precedenti l’ho conosciuta in modo indiretto, attraverso i racconti di alcuni zii emigrati, e sui libri, essendomi occupato molto di letteratura industriale. Milano è il simbolo del processo di trasformazione del nostro Paese, città di strati sovrapposti, dell’incanto durante il boom, del disincanto dopo la bomba di piazza Fontana, l’austerity, la crisi petrolifera e gli anni di piombo, e poi della leggerezza, del post-ideologismo, della commistione fra politica e affari, negli anni Ottanta, che porterà a Mani Pulite. Cominciarono allora a imperversare i furbetti che si divertivano e speculavano e finirono in una spirale».

Cosa resta di quei decenni?

«Non la nostalgia, ma il grande rimpianto perché l’incanto degli anni Sessanta, in cui si è costruito il modello di vita democratico, è finito troppo presto. E poi tanti dolori, ferite irrisolte. Non abbiamo mai capito fino in fondo le violenze del terrorismo, non abbiamo ancora piena consapevolezza del perché l’Italia abbia preso una certa direzione e da civiltà luminosa sia diventata buia. Milano è piena di lapidi di studenti morti senza un perché, solo per aver partecipato a un corteo. È devastante…».

Il suo settimo romanzo conferma una tendenza a essere eclettico, all’esplorazione continua di territori diversi, non le piace ripetersi…

«Eppure sarebbe utile, a volte è indispensabile per certi scrittori ripetersi, o quantomeno stabilire un modello narrativo e percorrerlo, accontentando un pubblico che si abitua e si affeziona. Io per temperamento sono curioso e portato ad accettare sempre nuove sfide, quindi cambio sempre. Il mio lettore ritroverà un certo tipo di lingua, uno sguardo, ma io cambio sempre argomenti, luoghi, situazioni, dimensioni temporali. Dopo “L’albero di stanze”, un romanzo riassuntivo della stagione precedente, ho sentito la necessità di uscire fuori dalle rotte del mondo meridionale e, in particolare, da quello della Lucania. Anche se, a pensarci bene, già nel mio primo romanzo, “L’americano di Celenne” , la mia dimensione non era locale…».

La fedeltà a Marsilio non è mai in discussione ed è da poco arrivata Chiara Valerio come responsabile della narrativa italiana…

«Ne sono contento, ci conosciamo e collaborerò con lei in futuro. Sono arrivato in questa casa editrice per ragioni casuali, anche per sorte, ma nel tempo si è cementato un rapporto di collaborazione e si è stabilita un’amicizia. Sono un sentimentale e giudico il mondo e gli uomini non sulla base dell’opportunità, ma secondo altri parametri che hanno a che fare con stima e amicizia. Ho sempre avuto la sindrome di Francesco Totti o Gigi Riva, calciatori fedeli a una maglia, a un progetto. Lo scudetto del Cagliari di Riva ne vale dieci di quelli della Juventus. E Mancini con la Samp perse una finale di Champions, ma fin lì arrivò con la squadra in cui si sentiva a casa».

Alla Sicilia la lega il primo riconoscimento al suo lavoro di narratore…

«Ho vinto il premio Mondello opera prima per “L’americano di Celenne” e poi il Vittorini per “L’ultima sposa di Palmira”, che per me è stato un po’ il libro della svolta con vari riconoscimenti. La vostra Isola s’è sempre dimostrata aperta e disponibile nei miei confronti, è una terra che mi ha sempre accolto con affetto, in diverse fasi della mia vita d’autore. Conosco bene il nocciolo duro della letteratura isolana del Novecento, Sciascia, Brancati, Pirandello e Tomasi, amo terribilmente “I viceré” di De Roberto, campano ma siciliano d’adozione, anche se chi mi ha più sedotto è un siciliano anomalo come Vittorini, di cui sposo l’attenzione e la sensibilità nei confronti della modernità e di cui ho curato varie opere per Bompiani e Bur. Mi identifico nella sua scelta di inseguire la modernità a Milano. Non ero mai stato a Scicli, ma mi sento già legato a questo luogo, visto che Vittorini ne scrive nelle prime pagine de “Le città del mondo”».

La letteratura meridionale degli Alvaro, Levi, Scotellaro e Jovine ha eredi oggi?

«Il Sud Italia rimane un grande bacino di storie, un luogo da narrare, ma secondo me andrebbe fatto con un vocabolario nuovo, ha bisogno di altri linguaggi e categorie. Mi sembra che si commetta l’errore di raccontarlo alla maniera di Verga o Carlo Levi, ma quella stagione è tramontata. E il mezzogiorno è diverso, profondamente cambiato, più che raccontare il mondo com’è bisognerebbe provare a raccontare come vorremmo che fosse, non un lavoro da scriba, ma da ingegnere, da costruttore di mondi. Anche “Gomorra” di Saviano registra il mondo, ma quasi senza sforzarsi di capirlo. Io provo a dare il mio contributo, col personaggio di Louis nel mio ultimo romanzo. Se avessi voluto ritrarlo in modo tradizionale, sarebbe stato piagnucoloso, con la mente rivolta sempre al paese d’origine, in linea con certi stereotipi. E invece lui non ha nostalgia, è integrato, crede nella modernità di Milano».

Lavora già al prossimo romanzo?

«Sto pensando ad alcuni progetti narrativi, però non ci sto ancora dentro, sono distratto, in giro per l’Italia, non potrei dedicarmi con serietà alla scrittura». (Questa intervista è stata pubblicata, in versione ridotta, sul Giornale di Sicilia)

 

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