Il Novecento indonesiano e la maledetta bellezza

Eka Kurniawan torna con “La bellezza è una ferita”, caleidoscopico e bel romanzo che ha come protagonista una prostituta… risorta. Tutto può succedere e tutto succede nell’immaginario villaggio di Halimunda, dove la magia s’innesta nel reale senza scomodare Rushdie o Garcia Marquez

Sulla mappa della letteratura mondiale, tanto più in Italia, gli scrittori indonesiani non erano affatto cerchiati in rosso fino a un paio di anni fa, ovvero quando l’Indonesia è stata l’ospite d’onore alla Buchmesse di Francoforte. Da quanto è emerso è abbastanza semplice affermare che Eka Kurniawan, a quelle latitudini, è una personalità letteraria di rilievo e che promette di diventarlo anche a livello internazionale. Suggestivo e intrecciato alle leggende locali era il suo primo romanzo pubblicato in Italia, dall’editore Metropoli d’Asia, ovvero L’uomo tigre.

Intrecci, digressioni, molteplici piani narrativi

Deflagrante e gonfio di storie affastellate armoniosamente è, però, il suo romanzo successivo (un classico contemporaneo in Indonesia, pubblicato nel 2002), proposto stavolta dall’editore Marsilio che ha fatto tradurre la versione inglese a Norman Gobetti, La bellezza è una ferita (489 pagine, 20 euro). Eccessivo, ancor più che nella mole, in certe descrizioni crude, e assolutamente non convenzionale, tanto da essere inizialmente ostacolato in patria, nell’Indonesia a grande maggioranza musulmana. Realtà e magia, in molteplici piani narrativi costituiscono il tessuto di cui è fatto il romanzo La bellezza è una ferita, ambientato nell’isola di Giava (lì è nato Kurniawan), nell’immaginario villaggio di Halimunda dove, si fa in fretta a capirlo, può succedere di tutto. Intrecci e digressioni, atmosfere oniriche ed episodi surreali – anche se i riferimenti a Rushdie e Garcia Marquez, che sono stati fatti da più parti, sono buoni per i blurb – sono pane quotidiano per chi si accosta a queste pagine: sullo sfondo scorre la storia del Novecento indonesiano, la seconda guerra mondiale, l’occupazione giapponese, l’utopia comunista, la dittatura.

Le donne e il loro coraggio

Potrebbe sembrare un libro in cui l’universo maschile ha il predominio (e gli uomini sono molto presenti, per la maggior parte, ridicoli e intenti a mostrarsi forti, militari o rivoluzionari), per come appare ed è descritta la società indonesiana, tradizionalmente patriarcale, ma sono ancora una volta – nonostante misoginia e soprusi – le donne, con il loro coraggio, a fare la differenza e a distinguersi, una in particolare Dewi Ayu, la bellissima prostituta che ricordava ogni nome dei suoi centosettantadue clienti: nell’Isola di Giava tutti la avevano incontrato almeno una volta. E non solo lei spicca, anche Iyang con la sua tragica fine, o la principessa Rengganis, sposata con un cane, sono donne che spostano gli equilibri del romanzo e restano vive nella mente dei lettori.

Il corpo, potenza e condanna

Dewi Ayu è ritratta in vita, al massimo dello splendore, ed è lei stessa a raccontarsi, ventuno anni dopo la morte, quando risorge, per vendicare una maledizione che grava sulla sua famiglia e torna dalle quattro figlie, tre delle quali (Alamanda, Adinda, Maya Dewi) hanno ereditato la sua avvenenza, una è di aspetto mostruoso (come da desiderio della madre…) e per beffa del destino si chiama Cantik, ovvero Bellezza. Durante l’occupazione giapponese, finita nei campi di prigionia, Dewi Ayu aveva iniziato a capire quanto potesse essere potente il suo corpo. E da lì in avanti era stato un crescendo di abilità a letto, ma ancor più negli affari. La sua bellezza, però, è anche una specie di condanna, per sé e per i suoi cari, a cominciare proprio dalle sue tre figlie più belle…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *