La primavera a Griffintown, un mondo rude, una donna

Marie Hélène Poitras, scrittrice e giornalista canadese, conduce il lettore in un luogo fuori dal tempo e racconta, in un western poetico e malinconico, il drammatico tentativo di resistenza della tradizione alla modernità

In Griffintown (169 pagine, 15,50 euro) di Marie Hélène Poitras, pubblicato da la Nuova frontiera nella traduzione di Ilaria Piperno, i protagonisti sono per lo più reietti, vagabondi, orfani ed ex-prostitute; sono persone semplici, nel cui animo c’è spazio per tutti i sentimenti: odio, rivalità, invidia, vendetta, ma anche amore, coraggio e volontà di realizzare desideri mai mitigati. Le necessità di vita sono elementari, lontane dalla complessità e dalla frenesia del mondo contemporaneo a cui siamo abituati, e forse proprio per questo più umane.

Un omicidio dopo cui ogni vendetta è lecita

È primavera inoltrata quando Griffintown si risveglia da un letargo invernale durato più del previsto. Il freddo pungente ha messo a dura prova la sopravvivenza di uomini e animali nella stagione più rigida. Quando spunta di nuovo il sole, il quartiere può finalmente ricominciare a rivivere: alcuni cocchieri vi fanno ritorno per riprendere la loro attività; i cavalli ancora in salute vanno a occupare nuovamente il loro posto nelle stalle, mentre i nuovi arrivati sono chiamati a sostituire quelli più anziani e debilitati; i turisti europei e statunitensi si ricordano di questa terra per le amate passeggiate in carrozza in un mondo che sembra immune alle trasformazioni, dimentico di ogni affanno quotidiano. L’omicidio del proprietario della scuderia, Paul Despatie – dovuto forse ad affari di speculazione edilizia volti a trasformare il quartiere in una zona residenziale di lusso – sconvolge gli equilibri della comunità. Di quello che è stato a lungo il capo, rispettato da tutti, resta solo il corpo, abbattuto da due pallottole in pieno petto. La guerra ha inizio e le vecchie inimicizie tornano a galla: ogni vendetta è lecita, laddove il residuo di una civiltà ormai superata continua a permanere.

«Di regola, i poliziotti non vengono nel Far West; le autorità lasciano che gli uomini dei cavalli regolino da soli le loro faccende, a patto che queste non oltrepassino le frontiere del territorio. Quello che accade a Griffintown resta a Griffintown: è sempre stato così.»

Griffintown è un luogo dimenticato che vorrebbe imporsi alla memoria collettiva, rifacendosi a Cormac McCarthy – citato in epigrafe dalla scrittrice e giornalista Poitras –, a leggende e modelli epici, senza tuttavia avere lo spessore necessario per rendersi davvero indimenticabile.

I cavalli più umani delle persone

A Griffintown, quartiere periferico nel Canada ancora in parte francofono, sopravvive un microcosmo, un mondo fatiscente fatto di cavalli ormai troppo stanchi per sopportare le fatiche richieste, che sono – nonostante tutto – gli ultimi pilastri di un modello di società che volge al termine, attori di una resistenza passiva a una modernità che finirà per inglobare anche loro.
I cavalli sono parte centrale del romanzo: della loro natura vengono celebrati l’istinto, la volontà di esplorare il territorio e di conquistarlo.
In mezzo alla bruttezza che li circonda – quelle rappresentate sono vite fatte di polvere, escrementi e cuoio –, gli animali risultano antropomorfizzati, quasi più umani delle persone: mentre vengono maltrattati, l’affetto e la fedeltà ai cocchieri continuano a crescere.

Il sogno di Marie

Dalla città arriva Marie, una cavallerizza piena di speranze che, memore della sua infanzia felice in campagna, decide di tornare a lavorare con i cavalli.

«Ha fame di un nuovo mondo, cerca un modo per accedervi. E lo troverà, anche se i Piediteneri non sono i benvenuti a Griffintown.»

La difficile convivenza tra passato e presente si vede soprattutto in lei, nelle sue speranze, nell’invidia che le “galline” nutrono per i suoi modi gentili e aggraziati, nella sua aspirazione che segue il verso contrario a quello immaginato.
Marie, che con l’autrice condivide il nome e la passione per i cavalli, concorre all’ambita posizione di cocchiere. A dispetto del suo bell’aspetto, si rivelerà all’altezza di un compito destinato per lo più agli uomini, in un mondo rude, ancora succube di retaggi culturali.

Un mondo grezzo, senza speranza

La scrittura di Poitras, precisa e puntuale, con la lingua dei palafrenieri attinta direttamente dall’esperienza con i cavalli durante le estati a Montréal, riesce solo parzialmente ad ammorbidire un mondo così grezzo. Nemmeno i sentimenti più nobili riescono a illuminare quello che sembra un set cinematografico dove tutto si svolge come deve e i colpi di scena non sono previsti. Manca uno spiraglio di speranza che forse avrebbe reso questa sceneggiatura meno fredda, meno teatrale.

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