Vita e lingua reinventate, il Gemito di Marasco

Riproposto in edizione tascabile “Il genio dell’abbandono” di Wanda Marasco, non una semplice biografia romanzata dello scultore napoletano Vincenzo Gemito: protagonista l’artista, la sua vita di eccessi incandescenti, e una città, Napoli, che è morte e resurrezione

Ci sono autori che sgomitano, presenziano, straparlano, commentano tutto e su tutto sono interpellati (magari raramente su letteratura e dintorni) e sono insopportabili sui social network. E poi c’è una categoria che ci convince di più, costituita da quelli che “parlano” principalmente attraverso le opere che scrivono. A questa schiera appartiene Wanda Marasco, di cui Beat ha riproposto il titolo più celebre, in origine edito da Neri Pozza, ovvero Il genio dell’abbandono (352 pagine, 10,50 euro).

Vita raminga di un indomabile

Non è una semplice biografia romanzata del celebre scultore Vincenzo Gemito, quella che ha scritto Wanda Marasco. Con una lingua ricercata e raffinata, a tratti inventata, la scrittrice napoletana fa sposare, in una bizzarra commistione, storia e reinvenzione, vita vissuta (date e viaggi, in particolar modo) e immaginazione. Dai vicoli di Napoli a Parigi (dove contrae la sifilide, “il mal franzese”), dal grande amico, coscienza e complice, Antonio Mancini, pittore, al grande amore Mathilde Duffaud, modella, ad altri personaggi indimenticabili Marasco pennella le passioni incandescenti di una vita raminga e piena di eccessi, di uno slancio dinamico nella gioia e nel dolore. “Vicienzo” è “pazzo in latitudine e longitudine” e ha il “carattere di una putenta frèva”: la febbre di chi, impavido, lotta per affermare la propria identità e il proprio talento e, tutto sommato innocente, crede solo nell’arte. Orfano e indomabile, vittorioso e sconfitto, Gemito non impiega molto a conquistare il lettore, a travolgerlo.

Un incalzante spettacolo teatrale

Dal primo abbandono, quello in fasce sulla ruota dell’Annunciata, alla vocazione artistica, all’apprendistato, ai successi è un escalation di convulse azioni e parole, di separazioni soprattutto. Gemito (e non Genito, come aveva suggerito una suora all’anagrafe), “o scultore pazzo”, mai appagato e mai sereno, vivrà un burrascoso matrimonio, disturbi psichici che lo condurranno al manicomio di Capodimonte (la sua fuga da lì apre il romanzo), un complesso e controverso rapporto con Peppinella, la figlia, sodale ed estranea, raggiunta anche sotto forma di fantasma dal padre. Sembra di assistere a una incalzante rappresentazione teatrale (e il romanzo ha avuto una riduzione, successivamente alla pubblicazione), la cui drammatizzazione s’accompagna a un registro linguistico d’assoluta originalità, avvolgente, di grande fluidità fra italiano e napoletano, che Marasco riesce a tenere lontano dall’effetto folklore.

Napoli, bocca e ventre

Protagonista niente affatto nascosta de Il genio dell’abbandono è una Napoli non da cartolina, sebbene coloratissima, città di morte e resurrezione, “uno squilibrio di collera, malaffare e debolezza”. Erotica, vitalissima e vertiginosa, fra piazze e vicoli, piena di derelitti e nobili, fra bassi e salotti, mercanti e delinquenti, Napoli si fa, sulla pagina di Wanda Marasco, voracissima, bocca e ventre, si lascia respirare, masticare, digerire. Quello di Marasco è un romanzo che si attacca alla pelle e alla mente di chi lo legge.

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