Ikstena, l’universalità di una madre e di una figlia

La grande autrice lettone sbarca in Italia col romanzo autobiografico “Il latte della madre”: un rapporto contrastato, complesso e ricco è reso in un gioco di specchi fra due punti di vista. “Ho impiegato molto tempo per scrivere questa storia – ha spiegato la scrittrice nel corso di BookPride18 – ma non ho voluto dare nomi alla mamma e alla figlia perché non volevo raccontare solo la mia esperienza”

Una storia portentosa, fra tormento e luce. Un’infanzia traumatica e le difficoltà di uno dei rapporti più intimi, quello fra madre e figlia – sullo sfondo del regime sovietico – sono il perno del romanzo Il latte della madre (192 pagine, 16 euro) dell’autrice lettone Nora Ikstena, che in occasione del recente BookPride18, a Milano, è stato presentato dalla casa editrice Voland. Ikstena, una delle scrittrici più attive e influenti del panorama letterario baltico, ha dialogato con Margherita Carbonaro, che ha tradotto il suo romanzo (e di recente anche Come tessere di un domino di Zigmunds Skujins), e Alessandra Iadiccio.

Una seduta di psicoterapia

Nora siede composta davanti al suo pubblico e io la osservo mentre sceglie con cura le parole. “Ho impiegato molto tempo a scrivere questo libro. Parla della mia esperienza personale, parla di me, della mia infanzia traumatica, del rapporto tra me e mia madre”. Afferma che l’idea di scrivere un romanzo autobiografico l’ha accompagnata per molti anni e descrive Il latte della madre come il risultato di una seduta di psicoterapia o la rielaborazione di un trauma profondo, intenso.
La madre, straordinaria protagonista di questo romanzo, è un medico con una specializzazione in ginecologia. Nora è la figlia che la madre non aspettava, un dono improvviso che allontana e dirada le crisi depressive materne: cresciuta tra le cure amorevoli dei nonni, privata del latte materno subito dopo il parto, svilupperà nei confronti della madre un rapporto contrastato e sofferto. “Ho maturato un distacco rispetto alla mia storia personale” dice mentre racconta di aver ricevuto la prima copia di un suo libro proprio al funerale della madre. “Non ho voluto dare nomi alla mamma e alla figlia di questa storia perché non volevo raccontare solo la mia esperienza”.
Ripenso alle figure femminili che accompagnano la narrazione e mi appaiono in tutta la loro universalità, come universale è la grande letteratura. “Quando da ragazza leggevo i diari di Rilke, ridevo di lui che confessava di piangere mentre scriveva. Solo dopo aver scritto questo libro ho capito quanto fosse vero”.

Due piani e un gioco di sovrapposizioni

La narrazione presenta due piani distinti, quello della mamma e quello della figlia, alternati tra loro come in un gioco di specchi che rivela la complessità e la ricchezza che caratterizza il rapporto madre-figlia. I due punti di vista, volutamente confusi all’inizio, si distinguono sempre più chiaramente col progressivo dipanarsi della storia: il lettore apprende istintivamente a separare il punto di vista della madre e della figlia, a capire chi è che parla nei dialoghi che vengono riportati senza virgolettati. L’ambiguità iniziale è presente anche nel testo originale, rispetto al quale la traduzione ha avuto il pregio di mantenere inalterato questo gioco di sovrapposizioni, così come le frasi brevi e disadorne. La poesia del testo sta tutta nel ritmo delle frasi rapide e nella precisione dei termini utilizzati. Il risultato è una prosa semplice e poetica allo stesso tempo, con un’intonazione intima.

L’amore filiale diventa cura materna

La madre teme che il suo desiderio di morte, quella “forza quasi satanica che s’irradia all’esterno annientando ogni cosa”, possa trasmettersi alla figlia attraverso il suo latte, questo liquido amaro che ha perso la sua purezza e il nutrimento vitale. La figlia viene così sottratta al contagio ma destinata ad una lotta impari: quella di accendere la luce della vita che la madre, vittima rassegnata di sé stessa, continua ad oscurare. I rapporti così si invertono: l’amore filiale diventa ben presto cura materna. Il latte richiamato nel titolo rappresenta il simbolo di una mancanza, amputazione originaria di un legame che diventa la richiesta inespressa di affetto di una bambina nei confronti di colei che le ha donato la vita. L’immagine del latte negato ritorna con insistenza nella vita di Nora: è il mostro che tutti cercano di farle bere, è l’acqua del mare “calda come il latte”, è il sogno ricorrente di un seno grande e pieno di latte che non riesce a succhiare.

Nora Ikstena

Il dubbio della fede

Il regime sovietico non perdona l’audacia sovversiva della madre e pone fine alla sua brillante carriera di ricercatrice a Leningrado, affidandole un incarico presso l’ospedale di una cittadina
dispersa tra la campagna lettone. Messa di fronte alle sofferenze della nazione e privata della libertà di affermare se stessa, alla domanda “Credi in Dio?” che molte sue pazienti le rivolgono la madre risponde con la stessa onestà con cui dispensa le sue cure: “Non ho avuto ancora l’occasione di incontrarlo”. E la speranza di incontrarlo è ancora più difficile da mantenere laddove la scienza sembra spiegare ogni cosa, anche il miracolo della procreazione. La religione è un tema che ricorre continuamente nel romanzo, quasi un ritornello, e spazia ben oltre il riferimento a un credo specifico e abbraccia il concetto di un Dio inteso come conoscenza, speranza, unione. La divinità non riguarda solo l’uomo, infatti, ma anche la natura: accarezza “i fiumi, gli alberi, i prati, gli animali e i boschi”, come un soffio vitale che dona un tocco fiabesco al paesaggio.“Che peccato. È l’incontro più bello della vita”, avrà il coraggio di risponderle una paziente malata di cancro. Nora si è battezzata all’età di trentotto anni nella Chiesa ortodossa e si mostra emozionata quando descrive la Georgia come la sua casa spirituale e il suo rifugio. “All’inizio degli anni ’90, quando la Lettonia ha riacquistato la sua seconda indipendenza, le vecchie generazioni non hanno tirato fuori sono le bandiere nazionali, ma anche le loro Bibbie e con esse la loro fede. Pregare era un crimine, le persone non potevano andare in Chiesa a pregare. Il personaggio della paziente Serafima è ortodossa perché io stessa sono ortodossa; volevo creare un personaggio che fosse in grado di rappresentare una fonte di consolazione”.

Storia di una libertà negata

Il ripristino dell’identità nazionale, avvenuto dopo oltre quarant’anni di sottomissione (1944-1989), coincide anche con il recupero del nucleo fondante della letteratura lettone: si tratta delle Daina, brevi poesie che si sviluppano a partire dalla tradizione orale della canzone e che attraverso una narrazione intrisa di leggende e personaggi mitologici descrivono l’interno arco dell’esistenza umana, dagli aspetti reali a quelli più metafisici e ultraterreni. Le Daina rappresentano riferimenti letterari con un ruolo fortemente indentitario, pur risultando inserite in un panorama letterario molto giovane, che risale a fine Ottocento. “Se mi chiedessero di denunciare il danno maggiore causato dal regime sovietico” afferma Nora con tono deciso, mettendo da parte la delicatezza prima riservata al ricordo materno, “non avrei dubbi nell’indicare questa interruzione del normale sviluppo delle forme artistiche in Lettonia, dall’arte, alla lingua, alla poesia”.

La luce che c’è in noi

La vita prosegue nella campagna lettone e si fa strada tra la routine della scuola e dell’ambulatorio medico. La stagione dell’infanzia finisce: la figlia le sopravvive, la abbandona ma la lascia intatta dietro di sé, a ricordarle da dove è venuta. “Ce l’avevo fatta: ero nata facendomi strada nel grembo di mia madre con la testa in avanti. Ed ero sopravvissuta – senza il latte di mia madre”. Un giorno il maestro Blums, coraggioso professore di “storia della cultura”, accompagna la classe all’Ermitage di Leningrado. Davanti ad un quadro di Kuindzi la figlia perde i sensi e si abbandona ad uno stato di incoscienza. “In quel quadro” racconta Nora “è raffigurata una luna verde immersa nell’oscurità. Con questo episodio volevo trasmettere l’idea che nell’oscurità c’è sempre una luce, anche se circondata da un mare di tenebra”. “Tu che cambi, cambia incontro alla luce” si legge ad un certo punto nel testo. La forza portentosa del romanzo di Nora Ikstena è racchiusa proprio in questo prezioso monito: davanti all’amarezza del tempo ricordati della tua luce.

L’incontro è terminato e io riesco quasi a vedere la madre di Nora, che oggi rivive nelle sue parole. Sono gli anni Ottanta del ventesimo secolo e la Lettonia è sepolta da qualche parte nell’Europa dell’est. Non so che cosa stia leggendo la madre, dietro quella porta chiusa con naturalezza e determinazione. “Ma posso immaginarlo” – il libro di Orwell rimane aperto sulla scrivania, un passo a ricordarle il suo amore per il sapere, quell’amore che le è valso il titolo di “sapientona” e la nomea di asociale a discapito della collettività nazionale. Il suo sguardo è duro e distaccato; pensa ai nazionalisti nostalgici, ai colpevoli senza colpa, ai resti di una nazione fatta prigioniera. Ricorda le parole della figlia: “Ma perché il criceto ha mangiato il suo bambino?”. “Forse voleva evitare che finisse in una gabbia” le ha riposto, e sa di essere stata coraggiosa perché non le ha mentito. Là fuori, oltre la porta del suo studio medico, il comunismo dispotico li ha ingabbiati tutti, la loro tana un paese dimenticato dal mondo.
Mi alzo e so che non posso lasciare la stanza senza chiederle un autografo. Nora mi stringe la mano e ha la luce negli occhi. (Le fotografie sono di Rafael Alves)

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