Selvetella e la morte: azzardare, cadere, continuare

“Le stanze dell’addio” di Yari Selvetella è un memoir di rara autenticità, il racconto di una rinascita dopo l’intollerabile morte della compagna di una vita: zero retorica, zero patetismi, con una lingua priva di orpelli ma densa. Il ritorno alla vita è fra qualche fantasma, ma senza sensi di colpa

Ci sono casi e momenti in cui andare avanti sembra impossibile, ma è un dovere. O almeno di questo vuol convincerci un libro che bisogna far macerare a lungo dentro, prima di comprenderlo davvero e prima di poterne parlare o scriverne con onestà e lucidità. L’amore che resta in circolo, anche quando una persona amata muore, può essere sufficiente per continuare a vivere, al di là della sofferenza e, soprattutto, al di là di qualsiasi senso di colpa. Dolore e disperazione, ricordi e sofferenze possono trasformarsi in una forza che non sospettavamo di avere, “nel tempo inghiottito in cui tutti torniamo a nuotare“.

Niente lacrime “facili”

Sono riflessioni a cui s’arriva leggendo un volume pubblicato dalla casa editrice Bompiani, Le stanze dell’addio (185 pagine, 15 euro), memoir di Yari Selvetella, autore televisivo e giornalista, oltre che scrittore, spesso di cronache criminali. Il “crimine”, stavolta, è la morte prematura di una donna, la madre dei tre figli dell’autore, la compagna di vita, Giovanna De Angelis, editor e scrittrice, di cui era apparso postumo un romanzo, La frattura, edito da Elliot, che in qualche modo può considerarsi complementare a quello di Selvetella. Il suo compagno ha atteso a lungo e fra mille dubbi, per venire allo scoperto, con pagine incredibili sulla sua scomparsa: un intollerabile dolore dell’anima, perché chi, davvero è preparato alla morte? Alla propria o a quelli di chi amiamo? Nel volume di Selvetella c’è l’intima sofferenza senza la stampella di lacrime “facili”, senza nessun elemento patetico o retorico. Un’operazione non semplice, ma messa in atto e su carta dolorosamente, eppure lucidamente, nonostante i confini che la vita ha costretto a oltrepassare, che scompaginano tutto, eppure conducono a una rinascita, a farci comprendere chi siamo realmente.

A caccia del coraggio quotidiano

I corridoi dell’ospedale, il capezzale dell’amata, i libri da leggere (Melville o Simenon), gli aghi e le flebo, il mondo all’esterno e perfino altri malati che guariscono. Fanno i conti con tutto questo il narratore e l’amata, scomparsa dopo un nuovo ciclo di chemioterapia, senza che si materializzi la possibilità di un trapianto di midollo. E poi ci sono le ombre da allontanare, i figli da accudire, il necessario, indispensabile ritorno alla vita, nei suoi gesti più semplici e quotidiani (farsi la barba, fare l’amore, scrivere, mangiare gamberi), anche se “le stanze dell’addio” tornano periodicamente a rimbombare nella mente. La lingua di Selvetella – che si esplicita non solo nella prima persona – non ha sovrastrutture, è priva di orpelli, ma riesce a essere comunque densa e pregnante. Non si perde in smancerie e sentimentalismi, ma è davvero sentimentale, in un equilibrio audace che stupisce e incanta. “Prendersi la vita è dare, è azzardare e cadere. Posso solamente continuare”. A caccia del coraggio di ogni giorno. Un libro autentico come pochi, fra quelli scritti negli ultimi anni.

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