Simenon negli States. Con Abele e Caino

Il passato che torna implacabilmente è al centro de “Il fondo della bottiglia”, tra i più neri e cupi romanzi dello scrittore belga. In una cittadina dell’Arizona, tra ranch e cowboy, l’improvvisa e forzata convivenza fra due fratelli, un rispettabile avvocato e un evaso di prigione, porta a una resa dei conti inevitabile

L’anno dopo aver pubblicato Il ranch della giumenta perduta (lo stesso dell’uscita de I fantasmi del cappellaio), Georges Simenon propose un altro romanzo “americano”, Il fondo della bottiglia (176 pagine, 18 euro), recentemente ritradotto da Francesca Scala per Adelphi, nella monumentale opera dedicata al romanziere belga. Questo vecchio romanzo (sessantadue anni fa la prima traduzione in italiano, in ritardo di quasi dieci anni sull’originale) è la storia di un Abele e di un Caino (i fratelli Ashbridge), ma soprattutto di quanto sia difficile, forse una delle cose più difficili, essere fratelli, e magari pensare, agire in modo diametralmente opposto.

Rendez-vous

Cupo e nerissimo, di potenza elementare, è Il fondo della bottiglia. Sono le terre degli States al confine con il Messico il proscenio di quello che finisce per essere un dramma classico. In una piccola cittadina dell’Arizona (Simenon effettivamente soggiornò negli Usa, alla fine degli anni Quaranta), durante la piena del fiume, si consuma un tragico rendez-vous fra due fratelli. Da una parte P. M., rispettabile avvocato, amico dei notabili e dei rancheros della zona, che s’è ritagliato una posizione ambita, dopo un’ostinata scalata economica e sociale. Dall’altra il fratello Donald, evaso di prigione, dove era detenuto per il tentato omicidio di un agente di polizia, che vuole essere aiutato ad attraversare la frontiera, per ricongiungersi in Messico con la propria famiglia. La piena del fiume glielo impedisce e ripara a casa del fratello, che però cela a sua moglie Nora e ai loro ospiti la vera identità dell’ospite. Vorrebbe semplicemente evitare l’imbarazzo di una presenza inopportuna, di un fastidio nella sua vita scintillante, ma gli va anche peggio, entra suo malgrado in un tunnel, quello di una inevitabile resa dei conti.

Il cuore nudo dell’uomo

L’atmosfera oppressiva che gronda dalle pagine, per i più, è figlia del côté autobiografico di questo romanzo di Simenon, scritto per esorcizzare il senso di colpa per la morte del fratello Christian, per cui era stato fatale arruolarsi nella legione straniera, come da consiglio del fratello Georges, che voleva evitargli le conseguenze di una condanna a morte (arrivata in contumacia): il fascista Christian era infatti il responsabile dell’omicidio di un curato. I conti con i fantasmi del passato, di certo, non mancano. L’arrivo inaspettato di Donald turba l’universo felice di P. M. un po’ come i guai di famiglia avrebbero potuto schizzare di fango l’immagine del papà di Maigret. Risvolti personalissimi a parte, Simenon ancora una volta affonda le mani nel cuore nudo dell’uomo, con inaudita maestria, in un crescendo che culmina in una caccia all’uomo. Il “cattivo” Donald, prima d’essere smascherato, riesce perfino a sedurre pezzi del mondo che l’onesto e scrupoloso fratello è riuscito a costruire o, meglio, in cui ha saputo insinuarsi: un piccolo universo di ranch, mandrie e cowboy con benestanti proprietari che non disdegnano affatto lunghe bevute di alcool e mani di poker, in qualsiasi momento della giornata.

Le certezze dissolte

Il segreto della bellezza di questo come di molti altri romanzi di Simenon sta nelle sfumature in chiaroscuro, nei pochissimi passaggi in cui tutto torna in discussione e le certezze si dissolvono. Il destino incombe, la situazione precipita, il mondo si capovolge, gli uomini che lo scrittore belga mette in scena, con le loro teste e le loro viscere, sono alle prese con sfide che non sempre possono vincere.

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