Splendido e tremendo Forest, il bimbo che muore è eterno

“Tutti i bambini tranne uno”, esordio del francese Philippe Forest di una ventina d’anni fa, torna in una nuova edizione. Il percorso doloroso della morte della figlioletta, senza vittimismi, omissioni o censure. Nella consapevolezza che «Scrivere aggiunge ancora qualcosa alla vergogna di essere rimasti vivi» 

Il romanzo è splendido, tremendo e destabilizzante. Comincia col riferimento a una fiaba, a Peter Pan, finisce in una stanza fredda. Non bisogna essere necessariamente genitori per comprendere la sofferenza che rimbalza fra capitolo e capitolo, essere genitori, però, aiuta. C’è di mezzo il più terribile dolore, il più difficile anche solo da immaginare, quello intollerabile per eccellenza, «scandalo che fa tacere ogni metafisica, al cui confronto qualsiasi dramma assume movenze da abile minuetto». Quando tutto è compiuto, quando la sua Pauline (la figlia avuta da Alice), quattro anni, spira a causa di un tumore alle ossa, nelle ultime pagine Forest scrive: «La morte non cancella tutta la bellezza del mondo. La rende solo inutile e la trasforma in splendore vano». E, ancora, scrive: «Il bambino che muore è eterno. Ha le ore contate ma il tempo per lui si apre in orizzontale». La storia di Pauline torna, in vari modi, anche in alcuni libri successivi dell’autore francese ma nel primo trova, a cominciare dall’enormità di una diagnosi che tutto distrugge, compimento pieno. Il segreto? Trovare le parole per dire qualcosa che si sottrae alla comprensione e spiegare a se stesso, prima che agli altri, l’ultimo anno di vita della figlia.

Chiamato a essere narratore, disarmato…

È il racconto di una ricerca di normalità in un percorso doloroso, che scansa il vittimismo nella consapevolezza totale, finale però che «le parole non danno nessun soccorso» e lo stesso vale per la «dolcezza nell’orrore» vissuta in tre, nella voglia di dare un senso all’ultimo anno di vita di Pauline. Inevitabilmente si rincorrono anche riflessioni sulla letteratura (su autori con una sorte simile alla sua, Mallarmé e Hugo, e non solo), sull’arte e sulla religione (credere però che salvino o consolino è fuorviante…). Forest era un saggista (esperto di letteratura giapponese, in particolare), ma la vita lo chiama a essere, suo malgrado e con scetticismo, narratore. Narratore che non riesce a fermare il tempo, che non omette e non si autocensura, disarmato come i poeti più sublimi dinanzi all’abisso della morte.

Affrontare l’insuperabile, senza lasciarlo alle spalle

Il rischio dell’ostentazione dei sentimenti, del pathos a tutti i costi, è sempre dietro l’angolo, ma è una pornografia a cui Forest non s’aggrappa mai; non arretra davanti alle emozioni, ma il facile sentimentalismo è uno spettacolo che con lui non va in scena, lo scrittore francese sceglie la strada più difficile, che comporta pagine “insopportabili” per quanto iperrealiste, ma mai nichiliste o fini a se stesse. La cosa più evidente? La colpevolezza di chi scrive letteratura: «Scrivere aggiunge ancora qualcosa alla vergogna di essere rimasti vivi». Narrativa o poesia possono al massimo testimoniare, cercano di affrontare l’insuperabile, di aggirare l’irrazionale, ma non permettono di lasciarlo alle spalle.

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