Esule, naufrago, pazzo, immortale Rosales

“La casa dei naufraghi” è il romanzo autobiografico dello scrittore dissidente cubano. La fuga dall’isola di Castro e l’approdo a Miami non guariscono i mali della mente con cui fa i conti: orrori, depressione e tormenti lo accompagnano in una clinica per malati psichiatrici, dove un sentimento tenue lo lega a una donna

Rarissimo aspetto positivo delle dittature è la fioritura di artisti e intellettuali dissidenti. Il pensiero non si può imprigionare, si può punire, provare a limitare, ma quando è fondato su basi solide, oltrepassa il mare, le lingue, le differenze di prospettive e di idee, la morte. Anche nella Cuba castrista della soppressione sistematica dei diritti umani e di annullamento di qualsiasi forma di opposizione non sono mancate simili voci, quando non apertamente dissonanti, almeno non allineate o comunque invise al potere. Guillermo Rosales apparteneva a questa schiera – rivoluzionario della prima ora, disse no alla svolta autoritaria di Castro – e la periodica riproposta, in varie edizioni, del suo La casa dei naufraghi (119 pagine, 14 euro), tradotto da Chiara Brovelli, è una bella notizia.

Un esiliato totale

Il suo alter ego, William Figueras, figura centrale del breve romanzo, si definisce «un esiliato totale», in fuga da Cuba e da tutto ciò che rappresenta, con la speranza che l’America lo salverà. Gli States, però, non possono sottrarlo ai fantasmi della mente, quelli che lo strappano alla casa di una zia che inizialmente lo ospita a Miami, per poi condurlo in case di cura ai confini della realtà, disumani lager dove chi ha problemi psichiatrici è destinato ad affondare, non certo a rialzarsi. Malato di schizofrenia, condannato a una quotidianità disumana, scivola nella depressione. Una compagna di sventura, la diafana Francis dagli occhi dolci, rappresenterà l’unica discontinuità (assieme alla lettura dei poeti romantici inglesi) al gorgo di dolore, solitudine e infelicità che è la clinica dei matti.

Un amore impossibile

Tetro e crudele il romanzo autobiografico di Rosales, non aggiunge enfasi non richieste a un nichilismo assoluto, ma asciutto, a una vita allo sbando, a uomini e donne soggiogati dal proprietario della pensione-clinica, Curbelo, e dal suo collaboratore, Arsenio. Basta la normalità di William e Francis, di chi sente delle voci, di chi deve «prendere ogni giorno quattro compresse di Etrafon forte», di chi sogna, si illude, di fuggire via, permettersi una casetta, guadagnare qualche soldo con un lavoretto. Non è questa l’America che attende William e Francis, pazzi ed emarginati, vittime di una sofferenza che non è facile immaginare. Rosales era come loro, un relitto umano che rimbalzava fra motel e ospedali psichiatrici, prima di suicidarsi a quarantasette anni, venticinque anni fa. Freddo e disperato, dotato di tanti buoni dialoghi, il racconto di Rosales è il documento di una vita travolta dalla Storia – anche se Castro fa la sua comparsa più che altro nei surreali incubi del protagonista – e dagli angoli più oscuri della mente. Un libro con cui fare i conti, che restituisce alla vita eterna il suo autore.

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