Wrobel e “Il romanzo incompiuto di Sofia Stern”

Lo scrittore brasiliano Ronaldo Wrobel, classe 1968, è nato a Rio de Janeiro. Avvocato di professione, Wrobel – discendente di una dinastia di ebrei provenienti dall’Europa orientale – scrive romanzi e racconti. “Traducendo Hannah“, magnifico romanzo di Wrobel, è apparso nel 2013 in Italia, tradotto da Vincenzo Barca per Giuntina. Adesso è la volta de “Il romanzo incompiuto di Sofia Stern” (210 pagine, 17 euro), tradotto ancora da Vincenzo Barca. La vicenda – di amori e tradimenti sopita dai tempi della seconda guerra mondiale – è ambientata fra Brasile, Germania e Svizzera, fra i giorni nostri e gli anni Trenta. Tutto ruota attorno ad alcuni gioielli ritrovati in una vecchia banca di Amburgo e a un enigmatico libro di memorie, quello di Sofia Stern, ebrea tedesca emigrata in Brasile negli anni Trenta per fuggire dalla Germania nazista. Per gentile concessione della casa editrice Giuntina proponiamo, in anteprima, il terzo capitolo del nuovo romanzo di Wrobel (ne aveva accennato in questa nostra vecchia intervista), che sarà in libreria fra tre giorni

Germania, 1933

Sofia ebbe un buon presentimento quando il preside della scuola interruppe la lezione di storia per presentare Klara Hansen alla classe:
«Siate gentili con la vostra nuova compagna. Viene dall’Altes Land e ha quindici anni. Heil Hitler!».
«Heil Hitler» risposero le ragazze all’unisono.
Il professore ordinò a Sofia di alzarsi e di avviarsi verso il fondo dell’aula.
«Klara Hansen, questo posto adesso è il tuo».
Imbarazzata, Klara raggiunse la seconda fila e aspettò che la compagna raccogliesse le sue cose. Portava un vestito campagnolo e i capelli raccolti in due trecce bionde. Non si mosse per un’ora intera, spiata con sprezzo dalle vicine di banco. Terminata la lezione, fu l’ultima a lasciare l’aula. Sofia l’aspettava in corridoio con un sorriso cordiale, ma Klara aveva fretta.
«Devo andare in questo posto» e le mostrò un biglietto: Hallestrasse, 23.
«Abiti lì?».
«No. È l’indirizzo del mio lavoro. Tintoria Weiss. Sono in ritardo e ancora non so muovermi bene da sola ad Amburgo».
«Ti accompagno io».
Accorciarono la strada passando per la cosiddetta Klein Jerusalem. Sofia si prodigava in gentilezze.
«Quella è la sinagoga più grande che c’è in Germania, questa è la migliore panetteria del quartiere. Ti piacciono i gelati?».
Klara era arrivata ad Amburgo un mese prima. Non si era ancora abituata ad attraversare viali congestionati di traffico e ad abitare in un appartamento minuscolo con la madre e il fratello. Nel suo paesino la gente viveva in casette, con il tetto e il comignolo. Tutti si salutavano fra loro e avevano voglia di chiacchierare, senza correre per le strade come se fuggissero da animali selvaggi. I negozi dell’Altes Land vendevano cose semplici e i fiori crescevano nei boschi, non in aiuole quadrate rosse o gialle. Ma non tutto era negativo.
«È vero che nei negozi del centro ci sono scale che salgono e scendono da sole?» chiese affascinata.
«Certo. Ti ci porto quando vuoi».
Il sabato dopo andarono a fare una gita sul lago Alster. Il sole autunnale allungava ombre sui prati dove le famiglie facevano il picnic. Anatre e barche a vela scivolavano sullo specchio d’acqua. Camminando verso il centro, videro una limousine nera che lasciava degli uomini in divisa davanti a un hotel con le bandiere del Partito. Klara ammirò i palazzi storici riflessi sulla superficie del lago, impressionata dai pinnacoli del Municipio e della chiesa di San Pietro. Vicino alla Stazione Centrale, in un mercatino, si vendevano frutti esotici e spezie orientali, oltre a crostacei arrivati dal Mare del Nord, mostri amorfi irrigiditi nel ghiaccio, con chele e antenne spinose.
Tenendo per mano Sofia, Klara attraversò viali gremiti di tram e di automobili e stette in equilibrio sulle scale mobili dei magazzini Hirschfeld. Rimase abbacinata dall’eleganza delle vendeuses nel reparto donna.
«Il mio sogno è diventare sarta».
Fin da bambina, nell’Altes Land, aiutava la mamma ad aggiustare i vestiti. Il lusso maggiore che si sfoggiava in campagna erano i vestiti a fiori per il Giorno del Ringraziamento. Il suo sogno nel cassetto era visitare Parigi per vedere gli abiti più belli del mondo. Sofia ebbe un’idea:
«Andremo insieme a Parigi, ma prima faremo una passeggiata nella Mönckebergstrasse, la strada più elegante di Amburgo».
Entusiasta, Klara imparò a pronunciare nomi come Chanel o Lanvin davanti a vetrine con guarnizioni e perline scintillanti. Poi si incamminarono verso la zona del porto senza far caso alla vetrina infranta della Cappelleria Bender o al cartello che proibiva l’entrata a cani e a ebrei in una tabaccheria. Parlarono dei loro cibi preferiti, delle loro paure e speranze. Sofia le spiegò che il porto di Amburgo era il più grande della Germania. Il mondo arrivava e partiva in quelle navi dalle ciminiere fumanti piene di avori africani, sete cinesi, caffè tropicale. Un enorme pannello raffigurante Rio de Janeiro decorava l’atrio della compagnia Hamburg Süd. Sofia disse che non aveva mai visto una montagna dal vero. Accanto alla fotografia, un mappamondo con una svastica nel cuore dell’Europa.
«Il nostro paese è lì» indicò Klara con orgoglio.
Sofia camuffò la sua tristezza; non si considerava più esattamente tedesca. I suoi compatrioti si ostinavano a chiamarla straniera, nonostante fosse nata in Germania e ne andasse fiera. In tedesco aveva imparato a ridere, a piangere, a esistere e a nominare le cose. La sua anima apparteneva alla Germania di Goethe e di Beethoven; alla Germania rappresentata da Carlo Magno e riformata da Lutero; alla Germania difesa dal padre nella prima guerra mondiale.
Sì, Walter Stern era ebreo. E con questo? Loro non davano importanza alla religione e non frequentavano la sinagoga. Tutt’al più, Sofia aveva sentito parlare di una terra promessa a quel popolo di nasuti, un deserto nel quale nascevano le arance e i beduini si sposavano con tante donne.
A scuola, le compagne le voltavano le spalle. Passeggiava in cortile durante la ricreazione offrendo biscotti per prevenire aggressioni; le era vietato dire Heil Hitler e assistere alle lezioni di teoria razziale. Una volta un professore l’aveva lodata con discrezione, «nonostante il suo sangue impuro». Sofia aveva ringraziato, più offesa che lusingata. Aveva appena fatto un compito di matematica in cui si chiedeva quanti ebrei ci fossero in una cella con trenta persone, considerato che il numero di comunisti era la metà di quello degli ebrei.
«Devo chiederti scusa» disse Klara.
«Perché?».
«Perché ho occupato il tuo posto nell’aula».
Sofia tirò un sospiro:
«Non preoccuparti. Come ha detto il professore, il mio posto adesso è il tuo».
E andarono a riposarsi all’Elb Park, di fronte alla grande statua di Otto von Bismarck. Klara era ammirata della cultura di Sofia: come era riuscita a imparare i nomi di tutte quelle vie, piazze, ponti, parchi? Grazie a mio padre, fu la risposta.
Accordatore di pianoforti, Walter Stern amava dire che era cieco perché aveva prestato gli occhi alla figlia, che fin da piccola lo guidava per la città per recarsi in circoli, teatri, alberghi, persino transatlantici attraccati sull’Elba. Walter accordava pianoforti di ogni tipo, da scintillanti Bechstein a Baldwin sdentati. Alcuni rallegravano sordide taverne, altre annoiavano nobili in esibizioni protocollari. Sofia conosceva i palchi del St. Pauli come i palazzetti di Rothenbaum. Aiutava il padre nel suo lavoro, intonando la scala cromatica con rara perizia. Abbiamo una piccola primadonna, l’applaudì un baritono italiano all’Hotel Atlantic.
A dieci anni la bambina cantava già canzoni americane imparate da un marinaio nero di New York. Arenatosi nel Vecchio Mondo, Joe suonava un pianoforte sbilenco in una birreria vicino alla Herbertstrasse, la via dei bordelli. Un giorno lei gli aveva chiesto se il piano aveva il raffreddore per via di quel suo suono nasale e da allora il nero era diventato noto come Old Joe e il Piano Raffreddato.
A dodici anni, Sofia già si guadagnava qualche spicciolo portando pacchi, andando a fare spese e aiutando persone anziane. La domenica era giorno di pulizie in casa, prima di passare alla stazione ferroviaria per comprare la Frankfurter Zeitung. Leggeva al padre il giornale da cima a fondo: crisi economica, fascismo italiano, produzioni di Hollywood. A scuola, era l’unica a sapere perché in centro ci fossero tutte quelle file per l’assistenza sociale mentre i veterani di guerra esponevano le loro medaglie e le loro mutilazioni alle stazioni del metrò. Generosamente, distribuiva elemosine in giro per la città: non c’era mano tesa che Sofia lasciasse abbandonata. Come riusciva a essere così speciale?
«Possiamo essere amiche?» le chiese Klara con un sorriso innocente.
Sofia rispose con un abbraccio così forte che entrambe rimasero stordite. Chi le avesse viste in quel momento d’estasi non avrebbe capito se stavano ridendo o piangendo. Klara si asciugò una lacrima:
«So che tu sei diversa dagli altri, ma non mi importa. Anch’io sono diversa. Alcuni mi chiamavano strega quand’ero nell’Altes Land, perché non mi scordo mai le cose».
«Hai dei poteri?».
«No. Chi ha dei poteri indovina il futuro. Io non indovino niente. Non ho mai indovinato niente, ma ora ho un’intuizione. Qualcosa mi dice che saremo amiche per sempre».
Sofia arrossì di contentezza.
«Anch’io ho la stessa sensazione. Tra l’altro, conosco una zingara che legge il futuro con le carte. Mio padre ha accordato un piano nella pensione dove abita. Ci andiamo?».
«Andiamoci! Lei ci potrà dire se saremo amiche per sempre».
Tenendosi per mano, andarono a St. Pauli, il quartiere bohémien con i suoi cabaret e le sue birrerie. Imbruniva e i neon della Reeperbahn ammiccavano con le loro luci di vari colori e forme. Imbacuccate fino alle orecchie, svoltarono in una viuzza sinistra, evitando buche e montarozzi. Ma la paura di Sofia era un’altra: e se la zingara avesse estratto una brutta carta? E se avesse sputato fuoco e fiamme, facendo tintinnare i suoi bracciali, se avesse detto che la loro amicizia sarebbe finita in tragedia?
Attraversarono un terreno incolto e finirono in un posto male illuminato. In quel quartiere abitava gente rifugiata dall’Europa orientale che non riusciva a imbarcarsi per l’America e si ammassava in stamberghe come la pensione nella quale abitava la zingara. Nell’ingresso vuoto, le lancette di un orologio rotto erano ferme alle due. Suonarono un campanello, ma non comparve nessuno. Suonarono di nuovo. Niente. Decisero di salire fino alla camera della zingara. Una lampada oscillava nel corridoio del secondo piano. Si trovarono di fronte una porta socchiusa e una stanza devastata: cocci di vetro, mobili sventrati, vestiti e scarpe, mazzi di carte e il cranio di un animale.
Morte agli zingari, ringhiava una scritta rossa sulla parete. Era sangue? Sofia e Klara stavano guardando quando un grosso topo passò come un lampo.
«Andiamo via!» urlò Sofia.
Scesero le scale e corsero nel buio, saltando dentro pozzanghere, svoltando ripetutamente ad angoli di strade senza sapere dove stavano andando. Erano allo stremo delle forze quando un autista aprì le porte di un tram. Saltarono sul vagone, sudate e ansimanti, decise a non cercare mai più una cartomante in vita loro. Mai più! Che il futuro si rivelasse quand’era il momento. E per conto suo.
Povera zingara, pensò Sofia. Forse le sarebbe bastato guardarsi intorno per evitare disgrazie. C’erano profezie più lampanti della stessa realtà?

(da Il romanzo incompiuto di Sofia Stern di Ronaldo Wrobel, pubblicato dalla casa editrice Giuntina)

È possibile acquistare questo volume in libreria o a questo link goo.gl/jEFbah

copertina Wrobel

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