Tribuiani: “Sopravvivere ai guasti e… il cornetto alla marmellata”

Il compagno della protagonista del romanzo di Giorgia Tribuiani, “Guasti” è un cadavere plastinato trasformato in opera d’arte. Davanti a quel corpo inanimato, Giada si rende conto della sua immobilità, di una vita vissuta all’ombra, prende coscienza della sua esistenza. L’autrice: “Non bisogna cercare sempre la realizzazione di un obiettivo, si può anche vivere di gioie vicinissime”

Cos’è la paura se la si può toccare? Se diventa qualcosa di tangibile, reale? “La vita è uno stato mentale”, cita l’epigrafe di Guasti (113 pagine, 14 euro), e sembra quasi un paradosso: nel romanzo d’esordio di Giorgia Tribuiani, edito da Voland, la protagonista guarda negli occhi la sua paura, il suo dolore diventa un oggetto in “carne e ossa”.
Immobile, in una posa plastica che vuole conservare il senso di ciò che era ma non è più, il suo uomo è diventato, dopo la morte, un’opera d’arte alla mercé degli sguardi altrui. Gli sguardi della gente scorrono lungo il corpo nudo, scuoiato. E però adesso è questo che tu sei: una teca crollata senza rumore. Lui, fotografo di fama internazionale per sempre in attesa di quell’ultimo scatto, diventa lo specchio delle sue mancanze, delle scelte sbagliate e della sua inadeguatezza, specchio delle sue paure.
L’intero libro, spiega Giorgia Tribuiani, è un’oggettivazione di paure, in primis quella di «non essere all’altezza di», ma anche quella de non saper lasciare andare. In qualche modo, la paura è autobiografica. Scrivere Guasti è stato per lei una sorta di esperimento emotivo: «e se fosse andato tutto storto? E se non avessi avuto la forza di cambiare alcune cose? Mi sono chiesta cosa sarebbe successo se alla mostra fosse entrata una donna interessata ad uno di quegli uomini, emotivamente legata».

Nel tuo libro la plastinazione diventa il “pretesto” del racconto, del tuo immedesimarti nella protagonista. Perché?

«La plastinazione è entrata nel libro prima ancora che io potessi capire perché. Un amico mi chiese di accompagnarlo a questa mostra di corpi plastinati, e mi colpì subito – ancora più dei corpi – l’approccio che le persone avevano nei loro confronti. Se di fronte al primo corpo avevano una specie di shock, poi mano a mano che andavano avanti e vedevano quelli dopo, sembravano non accorgersi più di essere di fronte alla morte. Così come anche lo sguardo del plastinato, del compagno di Giada, che si spegne nella sua immobilità e diventa per lei uno specchio del suo stato sospeso».

Diventa lo specchio dei propri… guasti?

«Sì, esatto. Ci sono tanti tipi di guasti, ovvero di condizioni che non permettono di evolvere, di fare il passo successivo (il senso di inadeguatezza è uno di questi), ma la morte è il guasto definitivo in assoluto. Loro due sono entrambi guasti, ma lei in qualche modo può “riattivarsi”, sopravvivere. Specchiandosi in lui, Giada vede le differenze tra le due condizioni, scopre che ha ancora una possibilità».

Nella lettura ci si imbatte in due figure antitetiche: quella del giornalista e quella del vigilante. Superficialità contro empatia?

«Il giornalista è colui che non prova a vedere al di là della “compagna del plastinato”, che fondamentalmente non sa guardare oltre e sfrutta tutti gli strumenti per ottenere quello che desidera. Anche qui c’è una piccola nota autobiografica: ho lavorato un po’ nel giornalismo ma ho abbandonato proprio perché penso che i grandi mali del giornalismo di cronaca sia quello di creare sentimentalismo, di mirare alla pancia anziché alla testa. Il vigilante, invece, è l’uomo che sa guardare oltre. Quello che impara Giada stando accanto a lui è che non bisogna sempre cercare la realizzazione di un obiettivo ma si può anche vivere di gioie vicinissime (come mangiare il cornetto alla marmellata)».

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