Le fiamme di Sparaco, nulla è più democratico del dolore

Di fronte alla vita e alla morte non esistono etnie, religioni o culture. Ce lo ricordano i protagonisti e il palazzo in fiamme di “Nel silenzio delle nostre parole” di Simona Sparaco, romanzo che ha vinto il premio DeA Planeta: la perfetta tessitura dello stile e una certezza, che solo nella relazione la vita è possibile

Narrare la vita partendo dalla morte: un percorso a ritroso alla ricerca di verità che non sono altro che storie di vita semplici, ordinarie, descritte nei loro impegni e nei gesti quotidiani. Quello stesso quotidiano che troppo spesso diventa abitudine, che, mattone dopo mattone, erge steccati e che finisce per issare muri e alimentare silenzi eloquenti di cui, tuttavia, altrettanto spesso smarriamo o occultiamo, più o meno consapevolmente, il cifrario.

Fuoco e polvere

Raccontare la vita attraverso uno degli elementi primordiali, il fuoco, che per rigenerare deve prima necessariamente annebbiare i sensi e polverizzare ciò che incontra: perché è questo che ci insegnano la chimica e la fisica; perché è dalla polvere che le storie di genesi, ma anche, ad esempio, una recente hit di Ligabue (Polvere di stelle) ci insegnano che veniamo e che ritorneremo; perché è questa la legge scritta nella natura, talvolta amara, delle cose.

Ed è proprio dal fenomeno scientifico – Nel silenzio delle nostre parole (284 pagine, 18 euro) si compone di tre parti, ognuna delle quali è introdotta proprio da un’essenziale definizione delle fasi che un fenomeno incendiario attraversa (quelle, per intenderci, che ci vengono spiegate durante i corsi antincendio e che, per lo più, ascoltiamo distratti e subito dopo dimentichiamo) – che Simona Sparaco (nella foto di Mirta Lispi) prende il La per addentrarsi nelle vita di Alice, di Polina, di Naima, dell’uomo del brandy e, ancora, di Matthias, di Bastien, di Hulya e di quanti, intorno alle loro storie orbitano, tuttavia con il preciso intento di afferrare il noumeno della combustione, quella scintilla appena percettibile che nella notte di un non meglio precisato 23 marzo – un caso che il tutto avvenga nell’incipit della primavera? – si trasformerà in fiamma assassina cambiando – forse rigenerando? – in maniera irreversibile le vite di coloro che incontrerà sulla sua strada.

Dalla scienza all’esistenza

Dalla scienza all’esistenza dunque – che, poi, chi l’ha detto che non siano declinazioni diverse della stessa cosa? – perché, da narratrice di storie, l’Autrice probabilmente sente e sa che sapere non sempre equivalga a comprendere. Per questo e a questo, allora, servono le storie. E servono le parole: servono ad entrarci dentro ad un incendio e a sentire la gola pizzicare, i polmoni scoppiare, la pelle liquefarsi, il battito del cuore accelerare e aggrapparsi disperatamente alla vita, a quello che ne resta, a quello che immaginiamo potrebbe avvenire dopo perché anche e soprattutto quegli attimi trovino un senso e una via. In questo romanzo sono proprio le vite, terribilmente messe a confronto con il caso, la sventura, talvolta la superficialità con cui non pensiamo ai rischi che possono travolgerci, a essere soggetto (e mai oggetto) della narrazione.

Poche ore – appena quindici, prima che le fiamme devastino il palazzo berlinese di Hallesches Ufer – aprono il sipario al racconto della giovane studentessa italiana, Alice, che vive un rapporto conflittuale con la madre e di profonda sintonia con il padre e che è impegnata in un progetto Erasmus stravolto da una passione travolgente per Matthias, artista tedesco anch’egli in rotta con la sua famiglia; a quello di Naima, moglie di Gerard e madre di Bastien, affetta da sclerosi multipla che, oltre ad aver sclerotizzato il suo corpo, pare aver cristallizzato la sua capacità di leggere dentro la sua vita, le sue relazioni, le sue emozioni al punto tale da non consentire a suo figlio, un uomo ormai apparentemente diverso dal suo bambino, di liberarsi dal peso di un drammatico segreto; quella di Polina, giovane e promettente ballerina, ma adesso soprattutto neomamma alle prese con il piccolo e irrequieto Janis, effetto e “specchio” della di lei inquietudine; quella di Hulya, anche lei giovane donna che con coraggio e determinazione riuscirà a invertire un destino per lei già scritto.

Tante anime al femminile

Ad eccezione dell’uomo del brandy e di Matthias, quindi, tutte anime al femminile quelle che animano il palazzo di Hallesches Ufer: tutte madri e/o figlie “in lotta” con il loro infinito universo di emozioni e con altrettanti figure maschili (anch’esse filiali o paterne) per lo più ammalate, nel corpo e nello spirito, ma inevitabilmente complici di un’armonia che si può suonare solo a più mani.

Lo stile della Sparaco – che, ricordiamo, con questo romanzo vince il premio DeA Planeta con lo pseudonimo di Diego Tommasini, ottenendo la pubblicazione con la stessa Dea Planeta – è una perfetta tessitura: abile, preciso, puntuale, tagliente, incalzante quando serve e disteso quando necessario, ricco di dettagli e sfumature che mai cedono il passo alla mera descrizione giornalistica, ma che, al contrario, svelano una sensibilità e un lessico emotivi che, forse, possono essere propri solo di una donna… e, soprattutto, di una madre. Uno stile che rispetta magistralmente gli eventi al punto tale che divoriamo la prima parte del libro perché famelici di sapere quanto più è possibile delle vite degli inquilini (e dei loro satelliti relazionali) del palazzo, annaspiamo nella lettura (quasi sentiamo la necessità di interromperla tanto ci sentiamo soffocare) quando arriviamo alle pagine che descrivono gli attimi salienti dell’incendio e, infine, sconfitti, cediamo il passo, decelerando il ritmo della lettura nella parte finale, perché tristemente consapevoli che “tutto è compiuto” e che solo il tempo – anche qui non a caso l’Autrice sceglie di raccontare i fatti a un anno del terribile evento – e il silenzio, adesso virato nel suo significato iniziale e preso in prestito quale sinonimo di ascolto interiore e di riflessione con l’Io più intimo, occultato, inconscio, potranno restituire un senso a un dolore tanto grande, tanto sconvolgente, ma al contempo tanto unificante. Perché lo sappiamo: non esiste cosa più democratica del dolore. E soprattutto il dolore non fa sconti a nessuno: l’unico modo per provare a superarlo è elaborarlo; e, per elaborarlo, è necessario lasciarsene attraversare, centrifugare, frantumare, sminuzzare se necessario, per poi ricomporre i pezzi di quanto sopravvissuto e approcciare la strada del rinnovamento e della rinascita. Nel caso del romanzo in questione metafore di questa salvezza sono due elementi, due sopravvissuti, due vite: una fortemente reale e una fortemente simbolica a testimonianza che tutto ciò che crea legame difficilmente perisce davvero e che solo nella relazione (e, dunque, nel legame) la vita è possibile.

Da leggere con pancia e cuore

Nel silenzio delle nostre parole, dunque, è un libro che si legge con la pancia e con il cuore prima che con la testa probabilmente nella misura in cui esso affonda le proprie radici negli istinti più primitivi e ancestrali senza per questo far apparire l’uomo come l’homo homini lupus di hobbesiana memoria; piuttosto ci racconta di un uomo che, anche quando è pienamente consapevole di essere sul punto di morire, in barba all’egoico autoreferenziale istinto di sopravvivenza, sa essere pienamente e autenticamente generoso se tale devozione all’altro passa per il vincolo della vita e, quindi, dell’amore. E proprio in tal senso il romanzo disvela una tanto profonda, quanto essenziale verità: che il corpo sa tutto, che, a differenza della mente, il corpo non mente mai, ma che noi troppo spesso ce ne dimentichiamo, salvo ricordarcene in prossimità di quella dimensione salvifica che paremmo scorgere sul più brutto – o sul più bello? – e che parrebbe ergerci al di là delle nostre apparenti corrispondenze sensoriali.

Infine, un romanzo che in maniera elegante (e, forse anche qui, tipicamente femminile) mette in luce il fatto che di fronte alla vita e alla morte – che nella quotidianità si sfiorano e si toccano molto più frequentemente di quanto non siamo abituati a pensare – non esistono etnie, religioni o culture: perché se da un lato il nostro cervello tende all’economia cognitiva e alla semplificazione, dall’altro le storie e la letteratura sono sempre lì – solide, potenti, dinamiche – a ricordarci che la vita, multiforme e ingegnosa, sfugge ad ogni stereotipata classificazione, spesso causa dell’incomunicabilità e del silenzio delle nostre parole.

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