Tomassini: “L’amore è la ragione di tutte le mie solitudini”

Intervista a Veronica Tomassini, autrice dello splendido romanzo “Mazzarrona“: “Ho tentato di seppellire il deserto della mia giovinezza. La periferia che ho raccontato è il manifesto esatto di un Sud deteriore, realistico, non da plaquette folcloristica, non un Sud inno fasullo alle varie Marianna Ucrìa, Bocchemurate e così via. Nell’infimo ho intercettato il suo esatto contrario, nella finitezza delle cose, l’inspiegabilità dell’Assoluto”

Una seconda pelle, questa è la scrittura per Veronica Tomassini e come tale si impregna di ogni violazione, oltraggio, emozione, lode. Mazzarrona (ne abbiamo scritto qui), pubblicato da Miraggi edizioni, ultimo bellissimo e abbacinante romanzo della scrittrice siciliana, candidato per poco al Premio Strega, è ambientato nell’omonimo quartiere di periferia, a Siracusa. Il mondo raccontato è quello acre degli emarginati, delle «creature esangui», dei tossici. Al centro della narrazione, la voce di una adolescente innamorata di Massimo, un eroinomane anaffettivo. A Mazzarrona, fra quelle campagne spettrali, il cemento e le lamiere e le carcasse di pneumatico, lontano dalla cortesia borghese, si consuma l’adolescenza di Romina l’amica «che sa fare a botte»; Stefy, «bruttina, ma ricca da fare schifo», Mary dalle «grandi tette», Massimo. E la sua. In questa umanità scarnificata aleggia il fiato infetto d’una regina storpia che soffia su quei corpi, cuce le vite con filo spinato e fabbrica corone per ognuno di loro: l’eroina. Il fluido invade e seduce tutti loro; tutti, tranne lei. La ragazzina adolescente, timida e introversa che si rifugia nei libri, si salva. E, anni dopo, da ragazzina divenuta donna, torna a quel tempo e in quei luoghi e, con una scrittura sofistica, crudele e poetica, straordinariamante musicale, Veronica Tomassini li racconta, senza risparmiare colpi.

Mazzarrona, per Veronica Tomassini, è uno spazio ancora in movimento o un ricordo lontano?

«È un deserto, che non ha voluto nemmeno la mia memoria. Ho tentato di seppellirlo quel deserto, quel deserto si chiama: giovinezza. La mia l’ho tradita. Morta lì, pensavo. In un albume periferico, inutile, oltraggioso. E invece ecco che risorge – imprevedibilmente come l’Araba Fenice – e diventa qualcos’altro e non saprei neanche io definire cosa».

Il romanzo della periferia, il buio del perbenismo, il romanzo dei palazzi di cemento, dello sgretolio della civiltà, dei luoghi disperati e assopiti da un sonno torbido in cui l’eroina consuma e illude, distrugge e fa morire. Era la primitività di quei luoghi e di quella gente ad avermi fatto ammalare, un male cupo dello spirito, sordo ad ogni guarigione. Una voce, quella che esce da Mazzarrona – titolo del tuo libro che prende il nome dal quartiere di Siracusa – capace di scavare tra quei luoghi. Una voce elegantemente disperata che si fa spazio tra carcasse di pneumatici e storie violente. La periferia, appunto, umana e urbana, un tema che ricorre spesso nei tuoi romanzi. Che luoghi sono quelli del suo libro?

«Sono i luoghi di una vergogna, l’infamia collettiva che oggi traduco in disimpegno, criminosa distrazione della collettività, di qualsiasi tipo di militanza, che arretrava come ogni altra forma di legalità dinanzi a una brutalità tale, evidente, bastava allora come oggi pronunciare un numero civico soltanto. Il numero dello spaccio, dei derelitti, dell’ignoranza più primordiale. Il colore di un condominio: giallo. Erano le case dell’eroina. Toponimo tout court della deviazione. I luoghi della mia adolescenza hanno scelto Mazzarrona che è il manifesto esatto di un Sud deteriore, realistico, non da plaquette folcloristica, come magari vorrebbe certa editoria. Non un Sud inno fasullo alle varie Marianna Ucrìa, Bocchemurate e così via. No affatto. Dove persino il dialetto non è connotato. Un imbastardimento fuori da ogni cliché, completamente disonesto di solito».

La voce narrante è quella di un’adolescente introversa, pensierosa, di un’osservatrice inadeguata per quei sottosuoli. Una giovane donna abituata a stare in penombra, agli altri e a sé stessa. Un’adolescente che frequenta le periferie e ama i libri, veste di nero, digiuna e si innamora di Massimo, un giovane anaffettivo, eroinomane sentimentalmente esangue. Lei sa che, quello con Massimo, è un amore impossibile, eppure lo ama. Mi chiedo: il rendersi piccola, la necessità di stare al margine, frequentare delle amiche così diverse da lei, amare un uomo che sta per morire, digiunare… Perché questa vita in trasparenza?

«Ah. Questa è la grande domanda: perché? Lo ripeto, oggi, fino a esaurire la sillabazione. Non lo so. C’è un’inquietudine. C’è l’assenza primordiale, non so, l’ombra dell’amore, un calco che mi ripara addosso, ancora adesso, cerco l’origine. La luce primigenia, nell’ombra che mi ha lasciato. Dove sei? Lo chiedo io, la faccio io la domanda: dove sei? Perché? Sono due le domande. Non ho risposte. Perché ho letto Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino a nove anni. Perché? Ecco, un’altra domanda. È una follia. La mia vita da allora è stata stravolta. È cambiato il mio sguardo, indugiava dove lo toglievano gli altri. Cercavo una verità nella penombra. Nel soggetto capace di ingenerare indignazione, io cercavo una qualche forma di nobiltà, ero certa che la detenesse, nell’inesplicabile paradosso dei contrasti. Quando sono assoluti, sono depositari di soluzioni filosofiche insospettabili. Sei così marcio fuori che dentro risplenderai come una folgore. E questa è l’umanità che ho incontrato. L’amore è la ragione di tutte le mie solitudini, al plurale, solitudini, moltiplicate, avvitate attorno all’identico perno dell’impossibilità».

Amore, sesso e morte. Cos’era l’amore a quel tempo? Ne eravamo disperatamente attratti, lo cercavamo, con vergogna. Che amore è, appunto, quello a Mazzarrona?

«L’amore doveva ancora raggiungerci. L’amore è una spada conficcata nel fianco. In quel tempo? Non lo conoscevamo e non lo abbiamo guadagnato, vorrei aggiungere meritato. Sull’amore ho una mia considerazione, la recito con una piega amara sul viso, mi immagino così, amara e disillusa: l’amore è la pazienza nel sopportare la spada conficcata nel fianco, che non sai strapparti, in un gesto estremo e coraggioso. La lasci lì, allora, lasci che sanguini tutto intorno. Tutto intorno gronda l’assedio di quel che si è perso, spazi vuoti. L’amore è uno spazio vuoto. Può diventare glorioso se lo trasformi nella saetta luminosa e bruciante, a patto che non se ne abbia paura, che non se ne rivendichi la reciprocità, il vero castigo».

La protagonista prova a non farsi sedurre dai tentacoli dell’eroina anzi, al contrario, decide di voler salvare i suoi amici. È una necessità, un obiettivo, l’unico modo. Ma salvare gli altri per salvare sé stessi, o l’unica maledizione per resistere?

«Salvare. Il verbo è entrato nella mia vita per disturbarmi. Mi sembra di non aver desiderato che questo, sfinendomi. Non salvi nessuno. Oppure sì. Può darsi. Ne salvi uno, non sai come. Anzi lo sai, sei solo uno strumento. Ti domandi ancora una volta: perché? Giri di retorica. Magari hai una vita in pezzi. E salvare salvare, non ti ha assicurato una mostrina sul petto, l’indennità da noie esistenziali o crudeltà esistenziali come la solitudine e l’abbandono. Binomio molto caro al mio destino. Non so cosa dire. Ho avuto una vita avventurosa, o piuttosto fuori dalle righe, sono finita in luoghi indicibili, ho visto l’errore dell’essere umano tradursi in risurrezioni moltiplicate (come le mie solitudini, le nostre). Nell’infimo ho intercettato il suo esatto contrario, nella finitezza delle cose, l’inspiegabilità dell’Assoluto. C’è da perdersi, non tutto ci è stato rivelato, non saremmo in grado di sopportare la profondità della dolcezza eterna, la compenetrazione misericordiosa perenne, sovrumana. Adesso, qui. Limitiamoci alle cose terrene. All’infinita solitudine da trasformare in qualcosa. Per me è la scrittura. Il risultato che dilania gli abissi continuamente e io ci finisco dentro. Continuamente».

La scrittura di Veronica Tomassini è seducente, poetica. Uno stile abbacinante e dolorosamente sincero, che ammalia e stravolge, letteralmente, il lettore, creando con esso un’empatia straordinaria. Quanto costa emotivamente scrivere un romanzo così pieno di emozione/i?

«Costa tantissimo. Alla fine di ogni pagina, che scrivo, imponendomi una disciplina quotidiana, dopo ho bisogno di un po’ di tempo per ritornare su. Ho bisogno di stendermi, spesso mi ritrovo gli occhi bagnati di lacrime e sono copiosissime. È un abbandono che non riesco a sopportare più. Non ho alternativa, tuttavia. È una specie di morte. Eppure mi risollevo. Non so come».

Eravamo tutti colpevoli di non esserci mentre avremmo dovuto, ma eravamo innocenti. Comprendere quindi, che serve un’attenuante alla colpa, uno sguardo diverso, un’intelligenza sensibile per raccontare quel bestiario umano con parole diverse. È il perdono il valore che dimentichiamo di aggiungere nelle nostre storie quotidiane?

La colpa ci suggerisce l’indulgenza. Dunque se vogliamo la nostra defezione è una grande opportunità. Il giudizio piuttosto è la tentazione. Sono pochi quelli che, sfuggendole, passano la cruna dell’ago. Il perdono è un concetto enorme. È un universo che soppianta la guerra, ma prima ti costringe a combatterla. Non lo so. Il perdono. Certo. Ho perdonato, quando è accaduto non mi interrogavo sul fatto e non davo un nome all’avvenimento: se lo chiamo perdono già è una inibizione, significa che non sei dentro, c’è una distanza ancora tra te e la successione delle cose, dei fatti. Quando non lo chiami per nome, allora sei dentro, lo stai facendo, stai perdonando. Non domandartelo però. Lo sguardo diverso è la condizione della scrittura. Il nostro male, male di chi scrive, intendo. Il nostro feed verso una attenzionatissima follia. Bisogna vigilare, non debordare del tutto, tenersi sul filo.

Sto disseppellendo la mia vergogna: ditemi brava. È anche questo Mazzarrona, espiazione?

A vederla oggi sì, mi consolerebbe l’idea. Almeno è valso a qualcosa. Quel non essere è valso a qualcosa?

Premio Strega: è stata candidata e sappiamo il seguito. Che avrebbe significato vincere il Premio?

«Nulla. Un riscatto, sciocco, ma brevissimo. Un fuoco che sarebbe bruciato all’istante. Nulla. Il Premio sarebbe stato un ponte, un attraversamento (forse, mi illudo), per collocarmi stanzialmente nelle cosiddette patrie lettere. Sì, e dopo? Avrei scritto ancora?»

A cosa stai lavorando adesso?

«Ho appena finito una collaborazione letteraria con lo scrittore e poeta Davide Brullo. Era un epistolario sentimentale, un’esperienza molto forte, ho scoperto un’affinità potentissima con la scrittura di Davide. Nel frattempo ho iniziato un nuovo romanzo, apparentemente sotto la forma dell’epistola anch’esso. Lei scrive a lei. Ed è la stessa persona, che racconta anni inenarrabili, fine anni ’90. Li chiamo gli anni “polacchi”. Gli anni che hanno cambiato tutto, tutto quel che c’era prima lo avrebbero sterminato. Ambientati in una deriva alcolica di vagabondi dell’est. Ed è anche questo un romanzo che mi sfinirà, perché ogni mia parola è tranche de vie. Ogni volta lo è».

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