Vieira Junior: “Racconto abissali diseguaglianze e donne forti”

L’autore brasiliano Itamar Vieira Junior si racconta in questa intervista a Lusoteca a partire dal suo romanzo “Torto arado”, ancora inedito in Italia: “Le mie donne che reagiscono ai ruoli sociali che gli sono imposti, attraversano il tempo e prendono per mano, con decisione, le loro vite”

Itamar Vieira Junior, autore del romanzo Torto arado, vincitore del Prémio Leya 2018 e ancora inedito in Italia, ha accettato di dialogare con noi sui tratti salienti del libro, sulle comunità quilombola nel Brasile di oggi, su donne forti, sull’importanza dell’educazione nel dare voci a popolazioni «strategicamente silenziate». Protagonista del romanzo di Vieira Junior (ne abbiamo scritto qui) sono due sorelle…

Grazie Signor Vieira per aver aderito al nostro progetto di diffusione della letteratura di lingua portoghese.  In questo romanzo siamo all’interno di Bahia, nel suo Salvador, Lei che viene proprio dallo stato di Salvador, che è da anni ricercatore della tradizione, della cultura e della storia etnica-africana in Brasile, ha deciso di svelarci il mondo, invisibile ai più, di una comunità quilombola nel nord est del Brasile. Belonísia, una delle due protagoniste del romanzo, lotta duramente per far riconoscere l’esistenza della comunità e per far si che il lavoro di generazioni venga ricompensato attraverso il riconoscimento di diritti proprietari sulla terra. Nel libro si parla della comunità di Água Negra, ma com’è la situazione attuale in Brasile? Quante sono le comunità quilombolas e quante sono state regolarizzate?

«Lo scenario del romanzo è il sertão Baiano, della regione chiamata “Chapada Diamantina”. È una storia che ho cominciato a scrivere a vent’anni, quando ero ancora adolescente. Ho ripreso la scrittura dopo un lungo periodo di lavoro come funzionario pubblico e ricercatore. A un certo punto ho pensato alla lacuna presente nella nostra letteratura e sopratutto all’impatto che un’opera di letteratura riesce ad avere sul pubblico rispetto ad un testo di tipo accademico. Mi sono convinto del potere che ha la letteratura nel raccontare un’esperienza di vita. In Brasile l’abolizione della schiavitù non fu accompagnata da una riforma agraria che avrebbe potuto garantire agli immigrati africani e ai loro discendenti condizioni di vita tali da consentire un loro ingresso dignitoso nella nostra società. Le comunità quilombola non sono altro che i discendenti di quegli esseri umani che furono schiavizzati e che hanno dovuto mettere in campo strategie di sopravvivenza per attraversare il tempo e giungere fino ai nostri giorni. Senza queste strategie, l’abbandono da parte dello Stato e del potere pubblico li avrebbe condotti al loro totale annientamento. Nel corso di un secolo la maggior parte delle persone di questi gruppi si è trasferita nelle città. Ma un numero significativo di persone vive ancora nei campi, in condizioni molto simili a quelle ritratte nel romanzo. Si stima che ci siano più di tremila comunità sparse dal nord al sud del Brasile, e pochissime sono state regolarizzate da un punto di vista fondiario».

Quando parliamo degli abitanti di questa comunità parliamo di generazioni e generazioni di individui che per decenni hanno lavorato la stessa terra, la terra che non è loro pur essendo loro, perché è solo con il duro lavoro e l’amore per la terra che il suolo rende qualcosa. C’è differenza tra oggi e il passato?

«Ci sono delle differenze, ma l’affetto resiste in diverse forme. Chiaramente la vita urbana attrae, sopratutto i giovani che non trovano alcun vantaggio od opportunità nel rimanere fedeli alla terra, se non il fatto di essere essi stessi gli oggetti della violenza strutturale dei campi di lavoro brasiliani. Ma l’affetto per la terra non è qualcosa di diverso dall’affetto che possiamo avere per il luogo in cui siamo nati, qualcosa pieno di significato e che fa parte in modo irrefutabile della nostra identità, in un mondo dove i riferimenti diventano sempre più fluidi».

La critica a questi signori lontani dalla fazenda, che arrivano solo a controllare e pretendono il raccolto migliore anche nel periodo di siccità o di piene è forte. Ma non si parla solo di grandi proprietari terrieri ma anche della Chiesa. Mi riferisco alla storia di Bom Jesus, che nel libro racconta di come la Chiesa abbia contribuito a privare queste comunità della possibilità di godere di diritti terrieri. L’abolizione della schiavitù non è stata una lezione per il Brasile?

«Credo che non ci sia una critica direzionata ai proprietari terrieri o alla chiesa, perché è proprio la struttura fondiaria ad essere una fonte crescente di violenza. Chiaro che il latifondiario, sia egli un uomo, un’impresa o la Chiesa, esiste perché lo Stato ha permesso che esistesse. E la legge fondiaria brasiliana è fonte di una enorme disuguaglianza sociale, proprio perché storicamente solo chi poteva comprare la terra ha potuto ottenere diritti proprietari. Quindi, o si disponeva di ingenti somme o si cercava di ottenere dei favori dal personale statale oppure, ancora, si ricorreva ad azioni illecite come l’occupazione».

Il rapporto tra le sorelle Bibiana e Belonísia è unico nel suo genere. Da dove viene l’idea di mostrare la forza e la resistenza di questi straordinari personaggi femminili proprio attraverso questa relazione fatta di silenzi condivisi, di desideri impliciti, di una lingua muta ma che vuole esplodere?

«Scrivere di donne in questo contesto è stato più un obbligo che una scelta. Se volevo parlare delle comunità nella zona del sertão di Bahia le donne dovevano essere protagoniste, perché è questo che succede nella vita reale. Gli uomini abbandonano la terra molto presto alla ricerca di migliori opportunità di lavoro nelle fazendas del centro-sud del paese. Altri muoiono a causa della violenza o della mancanza di aiuti statali, che non arrivano nelle regioni più remote. Molte donne rimangono sole e finiscono per assumere il comando della famiglia e del gruppo in cui vivono, il che è paradossale visto che viviamo in una società patriarcale. La donna è il personaggio più vulnerabile della nostra trama sociale, è lei che è più esposta alla violenza, sia nel mondo sia all’interno della propria casa, ma è lei che alla fine finisce per guidare la famiglia e la comunità in assenza dell’uomo».

Quando Bibiana si allontana dice, in un passo meraviglioso, che ciò che più la feriva delle cose che si portava via era proprio la lingua, quella lingua che innumerevoli volte l’aveva liberata dalla prigione che può essere il silenzio. Il taglio della lingua come il taglio della voce dunque. La lingua mozzata di Belonísia è la lingua mozzata della sua comunità e sopratutto delle donne?

«La ferita della lingua è una metafora che simboleggia la mancanza di una voce di una popolazione che è rimasta strategicamente silenziata. È un silenzio scomodo e che non dà benefici a nessuno. Quando Bibiana parte e va alla ricerca di una nuova vita e di condizioni che permettano di liberare la propria famiglia dalla schiavitù, ricorda che lascerà la sorella sprovvista della sua sonorità, ricorda che si portava via qualcosa che riteneva fosse condiviso da entrambe. È la voce che condividono in quanto sorelle e soprattutto in quanto donne in un mondo disseminato di preconcetti».

Donne forti e uomini invece prevaricatori ma di fatto deboli. Zeca Chapéu Grande è forse l’unico personaggio, insieme a Severo, marito di Bibiana, a rappresentare un ruolo positivo. Il padre insegna alle figlie il valore della terra, il rispetto per gli altri attraverso le cure che dispensa agli abitanti della comunità, la fede nella storia della comunità e nelle sue credenze. E’ proprio il padre ad imporre il proprio volere al proprietario della terra e a chiedere la costruzione di una scuola. E la scuola cambierà tutto perché cambia le menti. Qual è il ruolo dell’educazione nel suo romanzo?

«Mi piace guardare al romanzo come a un’opera di formazione, proprio perché la storia mostra le vite dei personaggi in un lungo lasso temporale, dall’infanzia alla maturità. L’educazione emerge come un processo molto più ampio di quello che siamo abituati convenzionalmente a chiamare educazione. Se guardiamo all’origine della parola “educazione”, ovvero dal verbo latino “ex-ducere” vediamo che la parola significa condurre fuori,. La scuola è fondamentale per l’istruzione della comunità, per far sì che gli abitanti possano utilizzare proprio gli stessi strumenti dei loro sfruttatori per iniziare a cambiare le cose. Ma il senso dell’istruzione va ben al di là di questo. È un sentimento, è quel sentimento che permette loro di vivere e di essere aperti all’apprendimento. In ogni istante siamo portati a guardare fuori di noi e a contemplare la vita che scorre senza sapere dove stiamo andiamo. Qui il lettore si lancia all’interno di questo romanzo, ma questo “interno” in realtà è il “fuori” della sua vita, è ciò che gli consente di conoscere vite diverse dalla sua, ms unite da ciò che di umano c’è in tutti noi».

Con la terra gli abitanti instaurano una relazione, la terra fa parte del loro essere. Lo dice bene Bibiana nelle prime pagine del libro: la terra è il luogo da dove cresce tutto quello che seminano e mangiano, terra è dove seppelliscono i resti del parto e dove riposano i loro corpi. “Ninguem escaparia”. La moglie di Zeca dirà «questa terra vive in me, è cresciuta dentro di me e ha messo radici» e si batte forte il petto. E «arado» è anche non a caso la prima parola che Belonísia tenta di pronunciare dopo tanti anni e quel suono “torto” le percorre le viscere come l’aratro sulla terra, ma è un aratro storto, deformato. Leggendo questi passi mi vengono in mente autori brasiliani in cui è forte la presenza della terra: penso a Guimarães Rosa e a Graciliano Ramo sopratutto, in particolar modo quando parla del periodo di siccità che colpisce la comunità. È una sensazione giusta?

«È molto interessante la domanda perché finisce per confermare la mia risposta precedente. Penso di sì, Torto arado è tributario dei grandi romanzi regionalisti brasiliani, già per il fatto che l’idea di scrivere questo libro è emersa tanti anni fa, proprio quando mi sentivo rappresentato da grandi scrittori come Guimarães Rosa, Jorge Amado e João Cabral de Melo Neto. Ma in quel momento, nonostante la voglia di scrivere (ho scritto le prime 80 pagine) non avevo l’esperienza e l’educazione per il culto della terra, non potevo narrare le storie della terra. Sono nato in una città e solo molto più tardi sono andato a lavorare in un campo. Il primo momento è stato uno schock: i romanzi che avevo letto, ambientati nelle fazendas e nei campi di lavoro orami avevano più di 50 anni ma poche cose sono cambiate nel frattempo: la struttura fondiaria, la miseria e la violenza sono le stesse. È là che sono entrato in contatto con i più poveri, con chi non possedeva la terra e viveva in accampamenti temporanei, con i piccoli agricoltori, con le comunità quilombola e con altre popolazioni regionali. È grazie a loro se ho conosciuto la terra e le sue storie. Il romanzo è cresciuto nuovamente dentro di me e ho potuto così raccontarlo da un punto di vista molto prossimo alla vita di quelle persone».

Belonísia non si lascia picchiare dal marito e ci riesce sostenendo il suo sguardo e preparandosi mentalmente a rispondere alla violenza con altrettanta violenza. Bibiana segue la sua sete di conoscenza riuscendo nel suo intento. Significa che credendo in se stesse queste donne riescono ad affrontare le situazioni più dure?

«Sono donne che reagiscono ai ruoli sociali che gli sono imposti, che non si conformano a ciò che la società si aspetta da loro. In assenza dell’uomo, al quale si è sempre attribuito il monopolio della forza bruta e della violenza, anche loro devono usare quegli stessi mezzi violenti per non soccombere, per non perire. Così queste donne attraversano il tempo e prendono per mano, con decisione, le loro vite».

Zeca Chapéu Grande, si ricorda nelle parole di Belonísia, credeva che ci fosse una redenzione possibile. C’è questa redenzione?

«Ognuno si prospetta una possibile redenzione per una vita di sofferenza. Per Zeca Chapéu Grande la redenzione consiste in una vita pacifica, e a volte passiva, ma allo stesso tempo la sua guida ha impedito che fosse esercitata maggior violenza sulla popolazione.  Ognuna delle due sorelle si formerà una propria idea di redenzione. Come essere sociale penso che ci sarà una redenzione solo quando sarà possibile guardare al passato in modo da comprendere quei meccanismi che hanno portato a questa nostra abissale disuguaglianza. Solo conoscendoli in profondità potremo superare un sistema di oppressione che ci impedisce di avanzare e di trovare soluzione ad un problema fondamentale».

Le donne di questo romanzo devono affrontare cambiamenti repentini nelle loro esistenze. O cambiano o non vanno avanti. Che cosa le porta a cambiare, che cosa le spinge in avanti?

«Devono cambiare vita per una imposizione estranea alla loro volontà, quando sono profondamente scosse dalla morte o dalla violenza della società in cui vivono. Ma cambiano anche perché sono umane e non sono immuni ai movimenti propri della nostra esistenza umana».

Torto arado è un romanzo polifonico, pieno di voci di personaggi ma anche di spiriti e dei protagonisti di tante storie che si tramandano nella comunità. A quale voce è più affezionato?

«Mi piacciono tutte le voci e ognuna ha la sua importanza nella trama. La voce di Bibiana è la voce della scoperta del corpo, della coscienza dell’oppressione e della schiavitù. Con lei capiamo la tragedia dello sfruttamento, capiamo da dove nasce il desiderio di emancipazione che non è altro se non il desiderio di libertà. La voce di Belonísia è la voce della natura: con lei scopriamo che cosa ci muove in quando umani, la sua voce ci riempie dell’affetto che nutriamo per la terra. Quella voce ci riempie allo stesso tempo dell’indignazione per la violenza del patriarcato: è sua la prima voce che si erge contro il maschilismo. La voce dell’ultima narratrice è la voce della Storia, che si ricorda che l’oppressione è il risultato della tragedia del passato schiavista, che molto poco è cambiato per quelle genti anche se sono passati secoli. È la voce finale che ci illumina sulla necessità di affrontare i fantasmi della storia».

Il prémio Leya è un importante riconoscimento. Che cosa è cambiato dopo aaverlo vinto? Si aspettava questa risonanza?

«È stata una grande sorpresa ricevere il premio Leya ed è stato molto bello accompagnare la promozione organizzata dalla casa editrice e l’apprezzamento dei lettori che accompagna sempre i libri premiati. Secondo me ogni premio è una buona cosa, ma porta con sé anche il preso di continuare a produrre opere dello stesso tenere del libro premiato. Non mi aspettavo il successo del libro. Vivo in Brasile e quindi mi sono reso conto della dimensione del premio solo quando ho iniziato a interagire con i media, a partecipare agli eventi letterari e a parlare con i lettori in eventi che si sono tenuti dal nord al sud del Portogallo».

Per finire, una domanda che facciamo a tutti gli scrittori e alle scrittrici che parlano insieme a noi di Lusoteca: uno/a scrittore/scrittrice brasiliano/a contemporaneo/a che legge con piacere?

«Sono molti gli autori che mi piacciono, ma chiederei un’attenzione speciale per l’opera incisiva e vigorosa di Maria Valéria Rezende, che ha deciso di ritrarre il Brasile più profondo. La sua ricca traiettoria di vita si intreccia profondamente con il suo meraviglioso lavoro letterario».

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