Il tempo non guarisce le ferite, gli ebrei erranti di Forti

La drammaturga fiorentina Laura Forti ha tratto il racconto “L’acrobata” da un suo testo teatrale. Un viaggio a ritroso nel tempo, una famiglia di ebrei in fuga da persecuzioni e violenze, una nonna e un nipote che fanno i conti con la perdita di Pepo – rispettvamente figlio e padre, per loro – che attentò invano alla vita di Pinochet e fu giustiziato

Una famiglia alle prese con almeno tre dittature, con la Russia zarista, con l’Italia fascista delle leggi razziali, con il regime di Augusto Pinochet. Sempre dall’altra parte, sempre dalla parte giusta. Nell’epilogo de L’acrobata (112 pagine, 12 euro), racconto della drammaturga fiorentina Laura Forti, ebrea italiana, c’è un grande assente, il protagonista, Pepo, al secolo José Valenzuela Levi, cugino dell’autrice. Nel racconto – che è certamente debitore di tempi teatrali e, prima di essere pubblicato come volume, è andato in scena – la conclusione è affidata a quelli che non potrebbero sembrare personaggi più distanti, un pagliaccio acrobata (totopajazo@gmail.com) – ragazzo in cerca d’identità – e una geologa, il primo nipote della seconda, accomunati dalla perdita di Pepo, padre e figlio, ebreo errante e combattente, caduto sul campo. Si scrivono mail, dall’ennesimo Paese dei tanti che tocca questa piccola grande storia, la Svezia. La nonna racconta tutta la storia, «a costo che mi si schianti il cuore rivivendola», consapevole che non è vero che il tempo guarisca le ferite. E alla fine ringrazia il nipote, perché non nasconde il dolore e le lacrime.

La sete di giustizia

Non è però tanto la fine a scuotere in questo romanzo breve, pubblicato dalla casa editrice Giuntina, quanto la sete di giustizia che anima Pepo, la speranza nel futuro mista alla paura, la foga di un esilio continuo, finito il 16 giugno 1987, quando la Dina, la spietata polizia cilena uccide il giovane cugino di Laura Forti, detto Comandante Ernesto: non ha nemmeno trent’anni e ha attentato alla vita di Pinochet, un agguato fallito, che costa un massacro ai dodici esecutori, vittime della cosiddetta Matanza de Corpus Christi. Il viaggio in Cile di Laura Forti di poco più di dieci anni fa è l’occasione per indagare su quel fantasma, protagonista di una misteriosa storia di famiglia. Solo l’ultima di tragedie e persecuzioni. Prima Reize e Juliusz, avi di Pepo, erano scampati ai pogrom della Russia zarista, scappati senza nemmeno la benedizione del padre, poi l’ennesima fuga, dall’Italia delle leggi razziste nonostante una posizione e un impiego di prestigio in banca: in Cile la madre di Pepo arriva bambina, lontana dal fascismo con genitori e nonni, si fa largo nella vita, tra una brillante carriera accademica e la militanza in gruppi di sinistra marxista, poi fugge quando il sanguinario Pinochet si installa al potere. L’ennesimo esilio di lei, in Svezia, per il figlio Josè Joaquin, da piccolissimo sensibile alle ingiustizie sociali, è la rincorsa di lui per un ennesimo peregrinare: Germania, Bulgaria, Cuba, prima di andare incontro al destino.

Acrobazie, senza badare alle vertigini

La coerenza con le idee di una vita, la consapevolezza di non volere restare inerte e indifferente, per Pepo, significheranno quasi offrirsi alla morte, con scelte e prese di posizione radicali. Acrobata più di tutti («Il popolo cileno reclama da noi questo sacrificio»), incapace di comprendere, fin da ragazzo, come nessuno facesse niente dinanzi a ingiustizie quotidiane, l’idealista Pepo torna nella terra che ha accolto sua madre, entra in clandestinità e, nel 1987, prova ad abbattere il tiranno. C’è una grande umanità tra le pagine di Laura Forti, c’è comunque speranza, c’è passione da dispiegare contro il male, c’è la forza di chi non ce l’ha fatta e di chi si è messo in salvo. C’è spazio per fantasmi e lacrime, dolore e voglia, comunque, di guardare al futuro, di fare acrobazie, sempre, senza badare alle vertigini.

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