Scrittura pulita e tempo indefinito, ecco Scerbanenco

Le storie di Scerbanenco, sono così, ti sommergono di sensazioni contrastanti nei confronti dei suoi personaggi perché come nella vita, il bianco e nero netto è abolito, perché non veritiero, ma soprattutto noioso

«La ragazza si accucciò vicino all’uomo steso sulla sabbia, a viso quasi in giù, per vederlo meglio. Era il principio dell’alba, il mare aveva smesso di battere sulla riva come aveva fatto tutta la notte; adesso arrivava sulla spiaggia lentamente, senza rumore, quasi un quieto lago. L’uomo stava bocconi, a gambe larghe, come fosse malamente caduto, la faccia a metà affondata nella sabbia. La ferita che aveva al collo era larga e, sotto, la sabbia era più scura. In alto, invece, il cielo diveniva di attimo in attimo più chiaro, benché tutto sulla terra fosse ancora un poco grigio, il mare, la striscia larga di spiaggia che correva a destra e a sinistra solitaria e come senza fine, e la boscaglia oltre la spiaggia…»

Inizia così il primo romanzo di Giorgio Scerbanenco che mi è capitato tra le mani, intitolato La sabbia non ricorda del 1963, pubblicato da Garzanti. Scerbanenco, Scerbanenco, Scerbanenco. Un nome non facile da pronunciare, eppure mi girava in testa da un po’, proveniente da diverse fonti e citazioni, libri, consigli, interviste o presentazioni a cui ho assistito.

Origini ucraine e prolificità

Confesso che la prima volta che l’ho sentito nominare ho creduto fosse uno pseudonimo, per creare mistero, invece volendo approfondire scopro che Giorgio Scerbanenco, nato Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko, nasce a Kiev (Ucraina) il 28 luglio 1911 e muore a Milano il 27 ottobre 1969 dove ha sempre vissuto. È stato uno scrittore, giornalista e saggista, andando a spigolare scopro che è stato molto prolifico, nonostante una morte prematura e che ha spaziato in molti ambiti della narrativa, nonostante la predilezione per gialli /noir sia evidente. Se poi si approfondisce meglio, si può scoprire quanto l’amore per la narrativa lo abbia accompagnato sin da giovane e quanto sia stato faticoso per lui arrivare a potersi mantenere “di storie”, visto che rimane orfano molto giovane e per campare è costretto a fare molteplici lavori prima di giungere alla Rizzoli come redattore e proseguire la carriera in vari giornali, riviste, rubriche.

La Milano della mala

Il milanese Scerbanenco appartiene alla Milano affascinante, che amo io e i suoi racconti descrivono le nebbie e le piogge sottili, le atmosfere delle canzoni della mala di Ornella Vanoni, quei personaggi agri, malevoli per scelta e per inclinazione, col coltello nella tasca e una piccola pistola nella cintura. I belli spaventosi di una Italia primi anni Sessanta, eppure la lettura dei suoi romanzi non ha tempo. In La sabbia non ricorda ma anche ne Il Centodelitti (edito da Garzanti) non si riesce a definire un tempo preciso, se non da alcuni particolari o date che ci rivela l’autore stesso e che sono sempre funzionali alla storia. La pulizia della scrittura e la sapienza della drammaturgia ne fanno romanzi anni Duemila con ambientazioni feroci di cui siamo abituati a leggere sulla cronaca giornaliera a cinquanta anni dalla morte dell’autore. Nel 1968 vince l’ambitissimo “Grand Prix de la littérature policière” e oggi a lui è dedicato un premio “Giorgio Scerbanenco” che premia l’autore del miglior romanzo giallo/noir italiano pubblicato nel corso dell’anno precedente e rappresenta il riconoscimento di maggior rilievo nazionale nell’ambito di questo genere.

Ogni volta un sentimento diverso, mai netto

Non amo la letteratura di genere, come viene definita, non mi affeziono ai personaggi, se non ad alcuni in particolare, non aspetto con ansia che escano le nuove storie di colui che dalla carta viene fuori come una persona in carne e ossa, anzi spesso dopo qualche libro la noia mi vince e lascio andare questi investigatori per la propria strada, senza rimpiangerli. È la scrittura che mi lega ad un personaggio, al suo autore, è il desiderio di vivere ogni volta certe emozioni che quell’autore ti sa dare, è ritrovare nelle parole qualcosa di mio che ho perduto per strada o che non sapevo nemmeno di avere. Scerbanenco mi provoca questo, prima con “La sabbia non ricorda” ma soprattutto con i “Centodelitti” leggo e leggo senza smettere, seguo il filo che mi tende l’autore un po’ riflettendo sul dove andrà a parare e un po’ lasciandomi andare finché ogni racconto termina ed io rimango lì, ogni volta con un sentimento diverso, ma mai netto. Le storie di Scerbanenco, sono così, ti sommergono di sensazioni contrastanti nei confronti dei suoi personaggi perché come nella vita, il bianco e nero netto è abolito, perché non veritiero, ma soprattutto noioso.

E così ragazzotti che stanno per intraprendere il crimine rimangono giovani dal cuore tenero

«…Lei si avvicinò, ancora più alta con quell’ombrellino blu. E allora lui tolse la Smith & Wesson dalla taschina e nonostante l’urto di vomito che aveva in gola sparò tutto il caricatore, e nonostante che il suo corso di tiro si riducesse a poche ore di esercizio con una pistola a sugherini, fece centro, in pieno, e la vecchia donna non ebbe neppure un grido. Lui girò la manopola e la Gilera esplose via, e lui la spronò a destra, verso via Ripamonti, per lasciare Milano, per essere il più lontano possibile dal luogo dove aveva fatto funzionare la Smith & Wesson. Il maestro aveva previsto tutto, tranne due cose: la delicatezza di stomaco di un ragazzo che non è abituato ad ammazzare, e la scivolosità del terreno per la pioggia. Francamente, è molto difficile guidare una moto vomitando, o avendone una impellente voglia. Inoltre, la già criticabile pavimentatura di via Ripamonti, con la pioggia, quella pioggia sottile, viscida, diveniva per una Gilera così scalpitante una pista acrobatica. Carlo Datti, di anni diciannove, abitante in via Marostica 70, con una sorella che esercitava, e una vedova di diciotto anni come grande amore, dovendo frenare per un camion che gli veniva incontro, e frenare in preda ai suoi conati di vomito, di rimorso, di orrore, si rovesciò a cavallo della sua cavalla matta, fece una cinquantina di metri piallando la strada con la sua coscia sinistra, finché tuta, pelle e poi strati grassi e poi muscoli non si dilacerarono e andò a sbattere col capo, col casco, contro la saracinesca di un negozio chiuso di ferramenta, con grande rumore…» (da Il Centodelitti)

E così sicari parlano tra loro di lavoro come fosse un impiego qualsiasi.

… Il ragazzo si stava finalmente addormentando quando gli parve che una porta si aprisse. Ma non ne era sicuro nel sonno. La porta di comunicazione si era aperta davvero: i due sicari sostarono un poco a decifrare il buio, poi arrivarono sino al letto sfiorando appena il pavimento con i piedi nudi. Rosario mise una mano sulla bocca dell’avvocato, con l’altra mano gli tagliò la gola. Concetto pensò al ragazzo. Rosario tornò ad accendere la luce per constatare la riuscita del lavoro. Era scrupoloso. Scoprì che il ragazzo gorgogliava ancora, debolmente. «Concetto», disse, «devi imparare a lavorare meglio.» Finì il ragazzo. Rosario spense la luce, lui e Concetto rientrarono nella stanza fissata per quello che a quell’ora era a Palermo a farsi vedere e ammirare da tutti senza sognarsi che a quell’albergo di Roma era aspettato per il giorno dopo. Si lavarono bene da ogni possibile macchia di sangue, si rivestirono. «Se impari, hai una strada davanti a te», promise Rosario a Concetto… (da Il Centodelitti)

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