Il bimbo di Ardone e i suoi “fratelli” per cui trepidare

Tre fanciulli tenaci, saggi ma dall’infanzia spezzata? Da Amerigo Speranza, protagonista de “Il treno dei bambini” di Viola Ardone, a Ninetto de “L’ultimo arrivato” di Marco Balzano a Momo de “La vita davanti a sé” di Romain Gary. Infanzie misere, con deprivazioni del corpo e dell’anima, e svolte cruciali nella vita. Fare la loro conoscenza è un onore

Se questo, anziché un consiglio di lettura, fosse un tema scolastico incasserei come valutazione uno stentoreo “fuori traccia”.
Sì, perché l’obiettivo iniziale era parlare dei pregi in generale, stilistici in particolare, della bellezza e del grado di coinvolgimento de Il treno dei bambini (248 pagine, 17,50 euro) di Viola Ardone, pubblicato da Einaudi. Poi però, mi si è profilata un’altra idea, anzi per meglio dire un desiderio o più ancora un’esigenza: rievocare, in una sorta di commemorazione, i ragazzini della letteratura che porto nel cuore ai quali Ardone mi ha ricondotto. Ed eccomi qui a scrivere delle altre narrazioni che mi hanno fatto trepidare per le sorti di un bambino, disperare per il dolore che la miseria causa all’infanzia, affliggere per le ferite che la deprivazione verga oltre che sul corpo, sull’animo dei fanciulli poiché spesso implica sottosviluppo culturale, diseducazione sentimentale e un certo crepuscolarismo affettivo, e infine gioire quando, dalle ceneri anche di uno solo di quei piccoli sono sbocciati adulti che si sono riscattati.
Amerigo Speranza, Ninetto detto pelleossa e Momo. Tre nomi per tre romanzi, Il treno dei bambiniL’ultimo arrivato, La vita davanti a sé, che meritano attenzione.

L’Italia del dopoguerra

C’era una volta l’Italia del dopoguerra. Vale a dire un paese disomogeneo nel quale, da nord a sud, emergevano, a macchia di leopardo, sacche di territorio per le quali la ripresa, in confronto al passo spedito delle aeree che si andavano industrializzando, si profilava come faticosa rincorsa. Una nazione nella quale, al di là del desiderio generalizzato di rinascita, della volontà di lasciarsi alle spalle i danni e i traumi del conflitto, in taluni strati della popolazione, la zavorra delle ataviche ferite ormai suppurate – arretratezza economica, produttiva e infine culturale – enucleava e separava con malevolenza i figli dai figliastri.

Sfumature di dolore e ottimismo

Ritorna a quell’Italia Viola Ardone con il romanzo Il treno dei bambini, una storia in cui certe asprezze della vita, certe sfumature del dolore, grazie ad una lodevole e caparbia pratica della solidarietà, si diluiscono fino a dissolversi in una ventata di ottimismo.
Il suo Amerigo Speranza è uno scugnizzo napoletano che cresce nella privazione – economica e culturale – più totale. La madre – del padre non si hanno notizie – in un momento di lucidità, di egoismo o di disperazione (il confine nella ratio di certe azioni è spesso sorprendentemente labile) lo iscrive al programma di affido predisposto dal PCI: i bambini poveri delle regioni svantaggiate sono collocati stagionalmente presso famiglie emiliane per essere ristorati e sollevati, sebbene temporaneamente, dalle proprie miserie.

Spartire il pane con i più bisognosi

Pagine toccanti, vivide di commozione ma soprattutto di speranza. Pagine che illuminano, grazie al riflettore puntato sulla storia individuale del giovane protagonista, paradigma dell’analoga esperienza vissuta tra il 1945 e il 1952 da ben settantamila bambini, un frammento di una storia collettiva, quella del PCI, nella quale si intrecciano in strettissima connessione l’intraprendenza visionaria dei suoi giovani militanti e dirigenti (intenso, quasi romantico il delicato cammeo di cui è protagonista il giovane Maurizio con il suo talento artistico, chiaro omaggio a Valenzi, amato e compianto futuro sindaco di Napoli) e l’afflato solidaristico della base, fatta di gente disposta a spartire materialmente il proprio pane con i più bisognosi.

Un picciriddu a Milano

L’ombra di un altro picciriddu si profila e prende consistenza alle spalle di Amerigo. Parla siciliano questo, viene da un piccolo paesino alle pendici dell’Etna, ha nove anni, si chiama Ninetto detto pelleossa e sul “treno del sole” che lo porta a Milano, ce lo ha messo il padre. È il protagonista de L’ultimo arrivato di Marco Balzano (205 pagine, 15 euro), edito da Sellerio. Questa, un misto di disincanto, ironia e precoce assennatezza, cronaca neorealista puntualissima dell’emigrazione infantile tra gli anni ‘50 e ‘60 (documentata dall’autore in una nota in calce al testo) e delle trasformazioni sociali e urbane degli anni del boom, è la sua voce: «Non è che un picciriddu piglia e parte in quattro e quattr’otto. Prima mi hanno fatto venire a schifo tutte cose, ho collezionato litigate, digiuni, giornate di nervi impizzati, e solo dopo me ne sono andato via. Era la fine del ’59, avevo nove anni e uno a quell’età preferirebbe sempre il suo paese, anche se è un cesso di paese e niente affatto quello dei balocchi».
A Ninetto ci si affeziona facilmente e al suo fianco, durante il faticoso percorso che è costretto ad affrontare in solitudine, si versa anche qualche lacrima, di pietà mista a rabbia.

Un piccolo a Belleville

Si vede che «le lacrime sono state previste nel programma. Vuol dire che era previsto che noi piangessimo».
È una delle tante perle di saggezza di Momo, il terzo bambino protagonista dell’ultimo romanzo di questo prolisso e irrituale consiglio di lettura: La vita davanti a sè  (214 pagine, 9,90 euro) di Romain Gary, pubblicato da Neri Pozza, tradotto da Giovanni Bogliolo. Con lui saliamo ancora più a nord, travalichiamo addirittura i confini nazionali per arrivare a Belleville (Parigi), quartiere di ebrei, arabi e neri. Il fil rouge che unisce i libri è ancora l’infanzia spezzata, l’età adulta che precocemente sconfina, irrompe, erode il tempo della fanciullezza, la risolutezza con cui certi bambini sono costretti anzitempo a prendersi cura di sé.
Il mondo di Gary è più tragico di quello di Ardone e di Balzano, ma il suo Momo è, come i suoi omologhi Amerigo e Ninetto, altrettanto tenace e saggio. Di fede musulmana, figlio di una sgualdrina, è affidato a Madame Rosa, ex prostituta sfuggita agli orrori di Auschwitz, ma ben presto, in un toccante ribaltamento di ruoli sarà lui a dover accudire l’anziana.
Amerigo, Ninetto e Momo, tanto simili ai giovani immigrati che approdano ai nostri giorni in Europa senza famiglia, destinati a crescere sperimentando il volto più crudo dell’esistenza, restano ottimi esempi del potere della letteratura. Fare la loro conoscenza è stato per me oltre che un piacere, un enorme onore. Il mio invito è di concedervi tutti questo prezioso regalo.

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