Maria e Leonardo Sciascia, la duplice assenza

Sono trascorsi trent’anni dalla morte di Leonardo Sciascia e dieci da quella della moglie, che seppe custodire il tempo di un autore tra i più celebrati del Novecento. Coppia moderna, non conformista, complementare. «Si proteggevano, pensavano le stesse cose, nutrivano gli stessi sentimenti», ricorda la figlia Annamaria. Gli ultimi anni da vedova, per Maria Andronico, furono densi, fra curatele e lavoro d’archiviazione

Quando lui morì, all’alba del 20 novembre del 1989 – schiacciata dallo sgomento e dalla stanchezza per i lunghi mesi di tensione e fatica e dolore – si abbandonò allo sconforto: «La mia vita è finita», disse. E per quella donna mite e dal volto rotondo, miope, gentile, ex maestra di scuola elementare, figlia di un maresciallo dei carabinieri di Ramacca, in provincia di Catania, s’avviò un lungo pezzo di esistenza senza quell’uomo che era stato per quasi mezzo secolo – prima che marito – complice, consigliere, compagno di avventure, sostegno premuroso.

Doppio anniversario

È un’esplorazione interessante quella di raccontare Leonardo Sciascia raccontando Maria Andronico, la moglie. Classe 1922, nata per caso il 29 maggio a Petralia Soprana a causa del peregrinare della famiglia al seguito del padre, sottufficiale dell’Arma. Una donna – come ha scritto Matteo Collura – che ha avuto un solo grande amore, una sola grande preoccupazione: il marito. Questo è l’anno di un doppio anniversario a casa Sciascia: trent’anni dalla morte del romanziere, avvenuta il 20 novembre, e dieci da quella della moglie, il 6 gennaio 2009.
Un viaggio in coppia che parte da lontano. I due, poco più che ventenni, si conobbero a Racalmuto, in casa della zia di Leonardo, in via Regina Margherita, anch’essa maestra, dove poi vissero a lungo e dove nacquero le due figlie, Laura e Anna Maria.
Maria Andronico è una giovane insegnante alle prime armi. Sceglie il «paese del sale», a pochi chilometri da Favara, dove era stato assegnato il maresciallo Peppino Andronico. Anni dopo si scoprirà che i due si erano fuggevolmente incrociati a Messina, durante la prova di ammissione al Magistero. La signora Maria racconterà di essersi incuriosita di quel giovane scuro, magro come un chiodo; colpì il suo interesse «perché fu il primo a consegnare il tema». I due – altra incidenza, altra coincidenza, altra avvisaglia di un destino – prima di frequentarsi avevano avuto un’amica in comune: la racalmutese Giuseppina Burruano, compagna di collegio a San Cataldo, nonché amica di infanzia di Nanà, nonché sorella del farmacista del paese.

Lei custode e prima lettrice

In qualche modo si può dire che se Sciascia è diventato lo scrittore e l’intellettuale di cui in questi giorni si rimpiange l’assenza, un contributo non secondario lo ha avuto la moglie. Lui stesso dirà che con la «serenità» del matrimonio ha potuto concentrarsi sui suoi studi, sui suoi libri, sulla sua poetica, sulla sua Sicilia. Maria Andronico seppe proteggere il tempo di un autore fra i più celebrati del Novecento; vegliò sulla sua concentrazione, sul suo bisogno di scrivere senza essere disturbato in quelle ore in cui le parole si riversavano sulla pagina bianca facendosi racconti, storie, saggi, romanzi memorabili. Era la prima persona a leggere ciò che il marito andava creando. Quella che correggeva i dattiloscritti e poteva dare suggerimenti, forte delle sue robuste letture, della sua appassionata curiosità. Da ragazza aveva studiato con slancio e profitto il pianoforte, rinunciandovi una volta sposata. Ma una passione alla quale non rinunciò mai, ad esempio, fu quella per le piante. Le conosceva, le coccolava, le accudiva. Le aiuole della casa in contrada Noce erano sempre pulite, perfette, ordinate, verdi e fiorite.
«È difficile spiegare bene quale fosse il rapporto fra i miei genitori – dice la figlia Annamaria -: erano uno per l’altra, si completavano, si proteggevano, pensavano le stesse cose, nutrivano gli stessi sentimenti. Non ricordo mai un momento di tensione fra loro o uno screzio o un’incomprensione».

Schivare le camurrie

Avevano una gioia di vivere che si traduceva in viaggi, letteratura, gusto per l’accoglienza. Schivavano abilmente le camurrie quotidiane con un’occhiata frutto di un’intesa inscalfibile, cementata il 19 luglio del 1944, nella parrocchia della Provvidenza a Caltanissetta, alla presenza dei due testimoni di nozze e di un solo amico, sperso fra i banchi vuoti della chiesa. Un matrimonio – che velocizzava e conclamava un rapporto, saltando tante fastidiose incombenze – nella Sicilia appena uscita dalla guerra «dove non c’era assolutamente niente», spiega oggi Stefano Vilardo, l’amico di una vita, forse per giustificare il suo insolito regalo di nozze: un coniglio e due colombi.
La coppia era moderna, avanti, non conformista. Sciascia, il maestro di pensiero che ha scoccato sciabolate di luce ai tanti lati oscuri della storia italiana del suo tempo, non aveva nulla del retrivo marito siciliano, quello che attende di essere servito, lascia alle donne tutti gli affari domestici, lamentandosi se il caffè non è pronto e se non tutto in casa è al posto giusto. Nulla di tutto questo. È lui, ad esempio, che fa la spesa e cucina. E questa sarà un’abitudine che conserverà per sempre: un po’ gli piaceva e un po’ faceva di necessità virtù, visto che la moglie lavorava e lui aveva orari più flessibili.
Racconta Anna Maria in una intervista concessa al sito degli «Amici di Sciascia»: «Quando ormai era famoso, capitava che i personaggi che venivano in Sicilia lo contattassero e papà non aveva remora alcuna ad invitarli a pranzo o a cena a casa nostra. Mia madre andava in crisi, perché c’era da improntare al volo un menù e lui, sornione, la rassicurava: “Maria, non ci trattiamo tanto male! Tratteremo i nostri ospiti come trattiamo noi stessi”. E si metteva a cucinare».

Dai sogni al computer

La vera «missione» di Maria Andronico è stata quella – si è detto – di dedicarsi al suo uomo. Lo ha sorvegliato, protetto, esaltato, assecondato. Ha favorito in casa un’atmosfera che consentisse al prosatore elegante di raggiungere le vette dell’arte. Lei è simpatica, ha un’aria svagata, e dunque indecifrabile; chi la incontra può avere l’impressione di una donna distratta («A che pensi Mariuzza», gli chiedeva spesso il marito quando la sorprendeva incantata), spersa nei suoi pensieri. Ma per Leonardo c’è sempre, si preoccupa per lui anche quando è addormentata. Mentre scriveva Morte dell’Inquisitore Sciascia una sera a letto pensava alle torture subite dal povero fra’ Diego La Matina. La moglie, che invece dormiva, sognò un incappucciato minaccioso. Si svegliò di soprassalto, spaventatissima. In famiglia, si rise a lungo di quell’incubo.
Tempra forte, carattere deciso, determinatezza, erano le doti di una donna che seppe stare sempre un passo indietro a quello che fu il più grande prosatore della sua generazione e fra gli intellettuali più rispettati in Europa. Quando il marito morì radunò le sue forze e cominciò a riordinare libri, carte, stampe, scartafacci. Curò personalmente anche la pubblicazione di due libri postumi. Nel 2001 ebbe una grave emorragia cerebrale, sembrava che avesse subito danni irreparabili, ma dopo qualche mese tornò in sé, imparò ad usare il computer e cominciò a schedare i volumi della sterminata libreria di casa. Un fenomeno.
La famiglia Andronico fornì anche un involontario, ma formidabile aiuto letterario a Sciascia. Contribuì a suggerirgli il nome del suo personaggio in assoluto più famoso, protagonista de Il giorno della Civetta. La sorella di Maria Andronico, Anna, sposò un ingegnere che si chiamava Aldo Belloli. Ed era di Parma. Come il capitano Bellodi. (Questo articolo è stato pubblicato sul Giornale di Sicilia)

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