Il nichilismo di Cioran non s’arrende alla bruttezza del niente

Emil Cioran, ovvero il travaglio di un’esistenza e una vocazione al pensiero come possibilità di strabordare dal confine di sé stessi. E i suoi aforismi raccolti in “Breviario dei vinti”, che ricostruiscono l’immagine di un pensatore devastato dal panta rei della Storia. Frammenti di un’anima che, sebbene ormai muta dinanzi all’inganno del mondo e della vita, sceglie la coraggiosa taratura del dictum poetico, anche per esprimere il nulla

Nacque in Transilvania. Attraversò l’Europa per immergersi in un mondo romantico che le cupe atmosfere degli aspidi Carpazi natii vollero forse negargli. Scelse come sposa un’insonnia perenne che lo rese compagno perfetto della notte, e descrittore acuto delle tenebre che ogni uomo si porta dentro. Bevve al collo di un popolo che, insieme al proprio sangue, gli infuse la reminiscenza di uno spirito votato ad una bellezza troppo acuta e perfetta per essere compresa. Chi lo ebbe accanto, forse per pochi istanti, ne osservò lo schivo e magro sembiante avvolto da un mantello di silenzio e di morte; ma coloro che l’ebbero accanto poterono raccontare anche d’essere stati tra i pochi a non cercarlo e ad esserne trovati. E chiacchierando con lui, centellinando frammenti di risposte che uscivano da quella bocca sottile, poterono assaporare l’aforisma dell’angelo decaduto, che in pochissime parole sa rivelarti un’oscurità ben peggiore di chi non riesce a vedere il sole: l’oscurità, cioè, di chi il sole non vuole proprio vederlo, perché se è vero che la bellezza può diventare afrodisiaca come un veleno, allora è opportuno che essa ti uccida un po’ per volta, senza incenerirti. Così, egli cantò l’eco funerea di un’anima che, nel vuoto di uno specchio incapace di rifletterla, scelse di sopravvivere a se stessa scavalcando il solco di un mondo tanto terrorizzato al pensiero della morte quanto incapace di comprendere la vita.

Non è Dracula

No. Non è di Dracula che stiamo parlando.

Il suo nome è Emil Cioran.

E la descrizione che ne avete appena letto è solo il frutto di una sorprendente somiglianza, una di quelle che ti fanno capire come, persino dietro il più immaginario e gotico antieroe della modernità, possa celarsi l’ombra di un essere realmente esistente. Un essere che ha lasciato le sue tracce. Piccoli segni d’inchiostro come gocce di sangue, a testimoniare il suo passaggio nel mondo. Le sue passeggiate solitarie non sotto i ponti di Londra, alla ricerca di una donna che gli ricordasse l’amata e perduta sposa, ma sui marciapiedi di Parigi, dove una sposa non può mai perdersi del tutto, perché chi assapora i ciottoli di quella città celebra comunque un mistero nuziale con la sua anima, che lo voglia o no.

Emil Cioran lo volle. Lo volle, eccome! Potremmo dire che il suo sogno fu quello di donarsi completamente ad una città come a una donna; ad una cultura come ad un talamo. Nella buona come nella cattiva sorte, nella salute come nella malattia, egli volle sposare un luogo, un respiro, una lingua; volle prendere in sposa quella “minor sfumatura del peggio” che sentiva fluire dentro di sé già prima ancora di farla propria.

Questo è Emil Cioran, rumeno per nascita, tedesco per formazione, francese per adozione o per elezione. Quasi per auto-acclamazione.

Per lui, che pur appartiene alla categoria dei filosofi e dei saggisti, non può tracciarsi un ritratto formale, perché non gli farebbe merito. Occorre osservare più da vicino il travaglio di questa esistenza per renderci conto di come, infine, nella maggior parte dei casi, la filosofia non sia una scelta accademica ma una vocazione al pensiero come possibilità di strabordare dal confine di sé stessi.

Spazi oltre quelli consentiti

La dottrina di Cioran si enuncia così, fin dai primi anni, come il disperato tentativo di creare spazi oltre quelli consentiti; spazi che, piuttosto che accogliere spiegazioni e ragionamenti, potessero diventare essi stessi occasione di emancipazione intellettuale e di epifanie: mostrare anziché spiegare! Rendere visibile piuttosto che tentarsi in vuote descrizioni!

L’intelletto dei giovani e arditi pensatori rumeni, infatti, nati e cresciuti all’ombra di un mecenatismo asburgico troppo paternalista e molto poco paterno, finiva quasi sempre per orientarsi alla volta di un sistema filosofico che da un lato accarezzava sì i guizzi di quello spirito nazionale da sempre ben definito, ma dall’altro non permetteva mai che questi diventassero onde. Si era liberi di studiare e di fare filosofia, purché gli entusiasmi romantici delle giovani anime rumene non si spingessero oltre il limite consentito dal condiviso “buon senso”, che è poi – talvolta – un altro nome dell’abitudine.

Cioran, che invece aveva proprio bisogno di questi impeti di tempesta, scelse, proprio nel periodo in cui l’ambiente universitario gli faceva conoscere personalità come Ionesco ed Eliade, amici e colleghi di studio, di concentrarsi sui filosofi tedeschi. Lì, dove lo spirito aveva avuto libero accesso fino a risplendere di ogni sua magnificenza espressiva, egli volle incontrare la propria avventura e si appassionò a tal punto da perfezionarsi oltremodo nella conoscenza dell’idioma straniero. La sua agguerrita voracità intellettuale, certamente corroborata da un evidente desiderio di riscatto ed evasione dall’ambiente solito dell’accademia, fu pienamente riconosciuta e si trasformò in una borsa di studio che lo vide presto spostarsi in Germania.

Il naufragio dello spirito

E proprio lì, nella terra dei suoi filosofi preferiti, Emil Cioran visse la grande mortificazione della sua vita: la disillusione costituita dalla povertà del pensiero dinanzi alle aspettative dello spirito, il sogno infranto dell’indagatore del senso di fronte a quella “tragicità di vita” che una mente umana non potrà mai accogliere, accettare, e soprattutto capire. L’esperienza nazista, che in un primo momento infiammò il cuore del giovane Emil, forse perché inizialmente vestita da progetto di esaltazione dello spirito umano, e poi rivelatasi invece per ciò che era, divenne per lui lo scoglio su cui si infranse la sua anima infuocata. Il naufragio del suo spirito, alleggerito poi da un approdo tanto sconsolato quanto provvidenziale, cominciò proprio allora.

Ricordate quando a scuola, parlandoci di Foscolo, ci raccontavano della sua trasformante illusione? Di come il poeta confidasse pienamente nel sogno napoleonico e poi, invece, vi intravide l’ennesima vittoria della materia sullo spirito, della rapina sulla verità? E da quel momento tutto per lui divenne sepolcro? Ebbene, a Cioran dovette accadere qualcosa del genere, a un secolo di distanza. Segno che l’illusione è sempre dietro l’angolo, come una tubercolosi del tempo, una perenne infermità della Storia; le illusioni si adattano alle ere, mutano forma ma non sostanza; trafiggono diacronicamente, incuranti delle mode come delle divise.

Il trauma tedesco, la ferita di questa Seconda guerra mondiale che in lui non dovette mai più rimarginarsi, lo costrinse ad un ritorno penoso: un’odissea spirituale senza più patria perché, nel frattempo, nel grottesco succedersi delle violenze e delle bandiere, dove i colori se la ridono dinanzi all’ingenuità umana, egli fu colpito ancora una volta: il nazismo gli tolse l’aspirazione somma alla vita; il comunismo gli negò la consolazione di un dignitoso rimpatrio.

Bergson e oltre

Senza più vita né patria, dunque. Così, le sopravvive spoglie di Cioran giunsero in Francia. In quella Parigi dove, tanti anni prima, era vissuto il suo Henri Bergson, “suo” perché amato, perché capito! Il filosofo del tempo e del creazionismo teleologico, il grande oppositore di quegli inamovibili colossi teoretici cui nessuno, per paura di schierarsi contro ciò che era intellettualmente dominante, osava schierarsi! E Bergson, invece, aveva polemizzato contro l’evoluzionismo di Darwin, contro la statica dottrina einsteiniana del tempo. E lo aveva fatto scommettendosi sull’idea di un movimento finalistico dell’universo, senza che il mutarsi delle cose nello spazio e nel tempo diventasse il mero effetto di un gioco meccanico e despiritualizzato.

Il giovane Cioran, certamente rapito e affascinato da questi coraggiosi ed appassionati slanci, aveva scelto Bergson come argomento della sua tesi di laurea. Per poi sconfessarlo anni dopo, riconoscendogli un ottimismo filosofico che, a suo dire, non era stato in grado di cogliere tutto il tragico della vita umana.

I segni della ferita, dunque, lo precedettero e poi procedettero per sempre, fino alla morte. Nulla fu più come prima. Cioran, che pure continuò a scrivere per tutta la vita, e che fu fermato solo da un impietoso Alzheimer, rifiutò categoricamente fino alla fine ogni cosa cui egli riconoscesse un qualche legame col mondo dei viventi: premi, onorificenze, e persino il suono del suo patrio rumeno. Decise, dopo il suo esodo dalla Germania alla Francia, di non scrivere più nel suo idioma natio e di scegliere il francese.

In ciò siamo invitati a non leggere una deriva romantica, né una strategia stilistica (per quanto indubbiamente il suono di quella lingua lo ferisse di bellezza), quanto piuttosto una scelta autoinflitta di negazione al trascendente: il francese, forte di una sintassi incrollabile e di una precisione linguistica capace di descrivere l’infinitesimale, a suo dire si prestava perfettamente ad un uso crudissimo del pensiero, dove un’idea poteva essere espressa per ciò che era, senza correre il rischio di subire una qualche possibile astrazione di tipo spiritualistico o sentimentalistico. Insomma, la bruta ratio, i bruta facta del pensiero, che lui non sarebbe riuscito a partorire nel vero dolore della sua anima se avesse indugiato ancora con il rumeno. Sembra quasi che la scelta di una lingua diversa dalla propria coincidesse con il desiderio di tagliare un cordone ombelicale molto più antico di quello biologico: una cesura ancestrale a tutto ciò che era stato, per un sospirato e venturo non essere.

Frammenti neoeraclitei

Di lui, oltre a tutti i saggi e gli studi, ci rimangono i suoi aforismi a testimoniare come una fotografia proprio ciò di cui abbiamo parlato: il momento della sua frattura tra l’oriente e l’occidente europeo, del suo passaggio da quel mondo nevoso e selvaggio a quello scintillante di una Parigi per lui sempre e comunque troppo oscura; frammenti neoeraclitei, che ricostruiscono l’immagine di un pensatore devastato dal panta rei della Storia. Frammenti di un’anima che, sebbene ormai muta dinanzi all’inganno del mondo e della vita, sceglie la coraggiosa taratura del dictum poetico, anche per esprimere il nulla. Un nichilismo il suo, dunque, non del tutto arresosi alla bruttezza del niente. Il francese come ultima possibilità di espressione di uno spirito moribondo che, tuttavia, languisce nel canto di una bellezza che sembra contraddittoria, tanto è capace di essere viva! Ecco il “disinganno” di Cioran: dove la scelta di stile diventa essa stessa speranza, dove persino il fallimentare corso dei sogni umani diventa speranza, perché l’errore e la sconfitta dell’essere aprono ad un essere più grande proprio in quanto maggiormente misterioso ed inaccessibile.

L’accesso a questo Mistero/Niente è l’ultima spiaggia di un Cioran che vive come un monaco silenzioso l’attesa verso il suo personalissimo infinito, quello che non si scorge neanche da dietro una siepe tanto è profondo il nulla. Ecco perché forse, scoprendosi ritirato dal mondo, egli chiama Breviario dei vinti (148 pagine, 13 euro) la sua raccolta di aforismi, edita in Italia da Voland. Sfoghi salmodici, confessioni oranti ma senza un interlocutore divino: solo se stesso come ascoltatore di se stesso. E naturalmente noi, che leggiamo e rileggiamo cento volte le stesse parole, serrate da un ermetismo poetico talmente fitto da darci la lieta immagine di un uomo quantomeno innamorato delle possibilità espressive della sua difficilissima penna. E si innalzi un minuto di religioso silenzio all’eroica fatica di Cristina Fantechi, che ci ha reso una traduzione italiana tale da farci capire cosa dovesse esserci all’origine di tutto ciò! (Tra parentesi… Breviario dei vinti fu proprio l’opera di passaggio tra il rumeno e il francese, per celebrare il quale Cioran decise di scrivere i suddetti aforismi prima in una lingua e poi nell’altra!)

Un sabato del tempo

Del resto, cosa ci aspetterebbe mai da un rumeno che conosceva Heidegger a memoria e navigava agilmente nel più difficile francese? Provate a sommare tutto ciò… Uno spirito valacco ubriacato di esistenzialismo ontologico poi naufrago tra le luci di Parigi. Ecco gli aforismi, ecco il Breviario dei vinti, non proprio una lettura da spiaggia, né da divano. Impossibile a letto. Forse inadatto persino a quell’innominabile luogo dove, nel segreto della propria intimità, ogni buon lettore si riconcilia con la propria contingenza tenendo sempre pronti un paio di libri sulla cesta del bucato… Già… Qual è dunque il luogo idoneo per una simile lettura? Ho provato a leggerlo in tutti i posti suddetti, senza grandi risultati, perché nessuno di quei luoghi riusciva a contenere l’Autore. Ho infine tentato una sorta di profanazione, scegliendo di leggere le sue pagine nella penombra di una chiesa, e mi sono accorto che – inaspettatamente – le soffocate grida di un’anima autoesclusasi dall’ipotesi del trascendente funzionano tuttavia benissimo secondo il titolo con cui sono state raccolte! Sì, un breviario si legge così: davanti a Dio. Fosse anche un Dio che non esiste.

Mi è piaciuto immaginare che Cioran, lungi dal riconoscersi “esistente” secondo qualunque classico canone della filosofia e del pensiero, si consolasse di trovare in un Dio inesistente almeno quanto lui un ascoltatore perfetto, un perfetto accoglitore della sua anima. Si tratta sempre di un’immagine e di una somiglianza. Di un’incarnazione oltre la carne e la Storia. Chissà che in fondo non l’abbia chiamato “breviario” proprio per questo… L’ironia è sempre una forma di religiosità, perché reclama risposte da ciò che non si vede.

E poi… All’inizio non l’ho precisato perché l’idea di Dracula mi era pure piaciuta, mi ci stavo divertendo e non volevo avvilirla con troppi dati biografici. Ma sapete? Cioran nacque proprio un 8 di aprile, data tradizionalmente legata alla discesa di Cristo negli inferi, alla sua sepoltura, al suo sepolcro, al riposo del più radicale dei sabati. Mi piace pensare alla sua esistenza terrena come ad un sabato del tempo, come ad un riposo dopo tanta passione, come alla muta e inconfessabile attesa di un 9 aprile che, quantunque in queste pagine non ve ne sia traccia, si lascia sfumare come un’idea di pace dal nostro rispetto.

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