L’identità perduta? Per Piersanti nel contatto con la natura

Con “Anime perse” lo scrittore e poeta urbinate Umberto Piersanti regala diciotto ritratti di uomini e donne che hanno commesso crimini in preda alla follia e si trovano nei centri di recupero, gli ex manicomi criminali. Tra passati problematici, rancori irrisolti, convinzioni assolute e voglia di libertà. Non un ritratto sociale o scientifico, ma un lavoro sulla parola e sulla lingua

È dai centri di recupero dell’alto Montefeltro che provengono le diciotto storie che compongono Anime perse (Marcos y Marcos, 2018, 192 pagine, 18 euro) di Umberto Piersanti: le testimonianze sono state raccolte da Ferruccio Giovanetti, fondatore e direttore del Gruppo Atena, per poi essere interpretate dalla penna dello scrittore urbinate, che affonda nella poesia le radici della propria formazione.

Istantanee di vite spezzate

Emilio nella vita ha tutto: denaro, beni immobili, un’ottima posizione lavorativa e l’amore di una donna che chiunque gli invidierebbe. Un giorno, nella sua esistenza apparentemente perfetta si insinua il tarlo di un’iniquità: un collega vince un concorso, soffiandogli l’opportunità di avanzare di carriera. Da qui nasce in lui la necessità di farsi giustizia da solo, laddove la società premia un incapace e non riconosce il reale valore delle persone che svolgono il proprio lavoro con dedizione e fatica.
Franco sogna la libertà che solo il mare gli può offrire, mentre la realtà che ha di fronte è quella di una moglie e una figlia che gli chiedono conto di come spende i soldi che si è guadagnato col proprio lavoro o di come dispone del proprio tempo libero; da questo disagio nascono i suoi atteggiamenti violenti nei confronti della famiglia.
Amalia, accarezzandosi la pancia, si interroga sulla possibilità di risparmiare al nascituro un’inutile esistenza, che non risparmia crudeltà a nessuno, nemmeno a chi non ha minimamente colpa.

«Forse la pazzia non esiste, ci sono solo modi di rispondere alle difficoltà e ai dolori della vita. Forse, la normalità non è che timidezza e paura, accettazione delle cose e delle vicende senza tentare di dare una risposta. Forse, l’uomo libero è chi se ne frega della morale comune, delle esigenze del galateo sociale, delle inutili aspettative d’una giustizia che non può essere che casuale, provvisoria o spesso ingiusta».

Nelle brevi istantanee immortalate da Piersanti si può indagare nel passato dei personaggi: quasi tutti sono problematici, hanno perso un genitore oppure sono vittime di un meccanismo sociale che non perdona certi difetti.
Alcuni mostrano una logica inoppugnabile, sono convinti che sia giusto uccidere solo perché si è stati derisi o offesi, sembrano non cogliere la perversione del vendere il proprio corpo, anche in modi umilianti, in cambio di piccoli doni, o di farsi trasportare in cattive compagnie che spacciano droga o rapinano banche.
Il motore di tutto è una convinzione pericolosa, dettata da una percezione personale del reale, come quella mamma che decide di tagliare le vene alla figlia molto malata e ridotta a una vita vegetativa e si giustifica credendo di sentire la figlia implorare di porre fine alla sua vita.

Una difficile reintegrazione in società

Alcuni protagonisti vivono in centri di riabilitazione dopo aver passato del tempo in carcere. Il più delle volte sanno che devono comportarsi bene per potere uscire, per avere la possibilità di terminare le faccende lasciate in sospeso, che non hanno mai dimenticato; il più delle volte i familiari non vogliono prendersene nuovamente carico, perché hanno paura, perché sono stati feriti e umiliati, perché finalmente possono avere un piccolo sollievo da una vita di affanni.
Ciò che caratterizza i protagonisti delle storie di Piersanti è la forte e inoppugnabile convinzione di avere ragione: anche lontani dal mondo restano arroccati nella loro realtà, l’unica che conoscono, l’unica che possono concepire.
I centri di recupero hanno l’obiettivo di restituire alla società persone nuove, rieducate, guarite; ma il più delle volte non c’è qualifica e capacità del personale che tenga, il chiodo fisso è congenito, il meccanismo malato di pensiero è troppo radicato per essere estirpato attraverso l’educazione alla buona condotta.

«Debbo dirgli di sì, debbo dirgli che ha ragione sennò da qui dentro non esco più. Hanno ragione sempre quelli che non ci stanno dentro, che gli insulti non li provano sulla propria pelle. Ha ragione chi sta bene, ha ragione chi non gli è successo mai niente. Ma io adesso lo faccio contento».

La pace del paesaggio, il tormento delle anime

I centri di recupero qui tratteggiati sono strutture accettabili, con buon cibo e con infermieri attenti e gentili, dove i pazienti sono seguiti e curati da personale sempre disponibile. I protagonisti sembrano accettare la nuova collocazione, ma la loro vera natura, i loro rancori non tardano a riemergere: è come se la rottura fosse costituita solo dal momento dell’arresto, ma in loro fosse rimasto qualcosa di irrisolto con il mondo.
Quelli che hanno la possibilità di uscire dal centro, finiscono per ricommettere lo stesso reato che li ha portati in carcere la prima volta: sembra non esserci una reale possibilità di cambiamento.
La bellezza della natura, sempre presente in questi luoghi di riabilitazione, sembra un retaggio della formazione poetica di Piersanti: gli elementi diventano spettatori di una realtà umana che continua a correre incurante.
«Il mare era liscio, piatto, come si è abituati ormai a dire, come l’olio. Da lontano si scorgevano le rupi del Conero con le pareti bianche solcate dall’intreccio di corbezzoli, allori e carpini.»
C’è un forte contrasto tra il tormento delle anime e la pace del paesaggio, dove gli ospiti sono invitati a curare un orto, a dedicarsi ai fiori, a produrre olio e vino, come se il contatto con la natura sia necessario a riprendere contatto con sé stessi. L’ambiente bucolico delle colline del Montefeltro vorrebbe proteggere questa psiche così fragile ma al contempo crudele, trattenerla in un mondo tranquillo, lontano dalla corruzione della società.

Guardare oltre la siepe

Eppure c’è sempre una volontà di fuga sopita, un guardare oltre la siepe, alla ricerca della libertà, della vita vera, nonostante i ritmi naturali scanditi dal centro sembrino dettare una perfetta armonia, una sinfonia dell’esistenza.
La siepe – topos letterario – separa dal mondo, dalla città dove è avvenuto il fattaccio, dai luoghi che sono stati testimoni di un dramma, ma è soltanto uno schermo, che non riesce mai a fare dimenticare completamente quello che è stato e che non può essere mai davvero dimenticato.
Piersanti non indugia a lungo sulla minuziosa descrizione delle turbe psichiche, si limita a raccontare i fatti per cercare una dimensione interpretativa più alta.
La volontà di fare critica sociale sembra lontana dal suo occhio poetico, che invece dà maggior peso alla lingua, all’espressione perfetta di concetti, alla capacità della parola di entrare in un mondo totalmente estraneo come può essere una mente malata.

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2 pensieri su “L’identità perduta? Per Piersanti nel contatto con la natura

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