La lealtà di De Vigan, i fili che ci legano agli altri

Nervoso, scarno e teso, è “Le fedeltà invisibili” della scrittrice francese, abile a inquadrare i legami profondi fra genitori e figli, fra adulti e ragazzi, tra i dolori di due compagni di scuola, e i dubbi e i sospetti della madre di uno dei due e di un’insegnante. Un romanzo che è tutto in divenire…

Che cosa spinge un ragazzino a giurare lealtà ai propri genitori anche se questi stanno distruggendo la sua vita? Che cosa spinge un amico a restare fedele al segreto inconfessato di un dramma familiare e a diventare complice di giornate trascorse a base di alcool? Che cosa spinge un’insegnante a restare fedele al suo passato costellato di violenza e ad un suo alunno di cui percepisce il dolore forse simile al suo? Di queste e di altre lealtà tratta l’ultimo libro di Delphine De Vigan, Le fedeltà invisibili (144 pagine, 17 euro), pubblicato in Italia da Einaudi, il cui titolo in lingua originale è Les loyautés.

Ali e catene

È la stessa De Vigan a inquadrare il romanzo nella cornice delle lealtà, di questi «fili che ci legano agli altri», che sono «ali», ma che possono anche essere «catene», spinte verso l’alto e prigioni di sogni, che legano alle persone, alle situazioni a volte al di là del comprensibile e del razionale. È il caso di Mathis, che per rimanere fedele ai quei patti taciti che si stabiliscono fra ragazzi non confesserà né alla madre Cécile, né alla professoressa Hélène, che beve alcol insieme a Théo alla scuola media durante la pausa fra un’ora e l’altra, che salta ore di lezione, che inganna la madre sulle uscite. Théo e Mathis sono inseparabili, quasi fusi l’uno con l’altro, tanto da sembrare gemelli: «stessa faccia angelica, stesso colore di capelli, stessa carnagione chiara», stesso desiderio – per la verità più di Théo che non di Mathis – di sporgersi con i piedi penzoloni sul baratro della morte. Fino a quando il dramma non si consumerà e a quel punto il patto dovrà essere spezzato.

Due ragazzi, due donne

I due ragazzi sono due delle quattro voci in cui è condotto il romanzo a cui fanno da controcanto quelle di due donne, che narrano le loro vicende, diversamente da Théo e Mathis, alla prima persona. Hélène e Cécile interpretano quanto accade ai due ragazzi partendo dal loro vissuto, dalle loro rispettive infanzie. Cécile, figlia di un alcolizzato, di umili origini, che ha sposato un uomo colto che l’ha istruita ed educata secondo i dettami della borghesia e del bien vivre, fa ricadere su di sé e sulla tara che la marchia il fatto che il figlio Mathis abbia cominciato a bere.

Un dolore sordo e perpetuo

Hélène, dal canto suo, comprende che nei movimenti incerti di Théo, nel suo sguardo spento, nella sua volontà di farsi quasi invisibile, si annidano le stesse violenze fisiche che lei, insegnante di scienze in una scuola media di Parigi, ha subito dal padre fino alla morte di questi. Ed è per tale ragione che, come una fiera è pronta a tutto pur di proteggere il ragazzo, nel quale rivede se stessa, e proteggere, forse, anche se stessa dalla cloaca dei ricordi che quel sospetto genera in lei. Si sbaglierà Hélène, ma solo perché le violenze subite da Théo non lasciano traccia sulla pelle. I segni sono purtroppo più profondi e non meno indelebili, conficcati nell’anima sanguinante di un ragazzino sbranato dalle incomprensioni e dalle fragilità che i suoi genitori divorziati nutrono l’uno verso l’altra. Théo è, in questo senso, una merce di scambio e il suo silenzio è il prezzo che il ragazzo stesso dà al suo bisogno di preservare i genitori dai colpi che si infliggono reciprocamente. Non parla, Théo. E vorrebbe annullare il dolore sordo e perpetuo che prova per l’assenza di affetto e di attenzioni sane da cui è circondato. L’alcol, allora, si rivela l’unico mezzo che possa anestetizzare quel dolore, che lo possa far arrivare al punto in cui «far tacere finalmente quel rumore acuto che sente solo lui». Il coma etilico sembra per il piccolo Théo l’unica via di fuga dalla sua esistenza così asfissiante e paralizzata in cui il rancore è diventato un muro troppo alto, più grande dell’amore per un figlio che elemosina abbracci, carezze, sguardi benevoli.

Porti sicuri o lacci vischiosi

Le fedeltà invisibili Delphine De Vigan è un romanzo che sembra essere stato scritto di slancio: è nervoso, scarno, teso. Il ritmo è incalzante, dato dalle frasi nette, pulite, tutte concentrate sulla diegesi, dalla brevità dei trentacinque capitoli, ma soprattutto dal modo in cui i personaggi sono descritti. Essi sono tutti sul punto in cui devono fare i conti con le loro “fedeltà”. La scelta del tempo verbale del presente rafforza un romanzo che è tutto in divenire, che conduce il lettore verso il climax che porterà all’epilogo aperto, spiegato come la coperta di sopravvivenza lanciata ad Hélène dall’autista dell’ambulanza.

Delphine De Vigan ha costruito un romanzo il cui merito è di aver raccontato con uno stile asciutto i legami profondi fra genitori e figli, fra adulti e ragazzi, legami che, a seconda del ruolo che ognuno sceglie o è costretto a giocare, diventano porti sicuri o lacci vischiosi.

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