Pachico e la Colombia: “Odio i delinquenti ricchi e impuniti”

Intervista all’autrice inglese de “Le più fortunate”, libro di racconti in cui racconta delle complicità dell’upper class colombiana con i boss del narcotraffico: “Garcia Marquez non sarà mai dimenticato, ma io amo Vasquez e Gamboa. Ho scritto un secondo libro, un romanzo ambientato a Medellin che parla di perdono e crescita”

La Colombia dei narcos sotto il giogo di Pablo Escobar, e le connivenze e le complicità che, ad alti livelli, hanno favorito killer e trafficanti che si sono opposti frontalmente allo Stato, provando a farlo scendere a patti, sfidandolo ma, infine, uscendo dal confronto ridimensionati. Quella terra – la Colombia, nei suoi anni più caldi – fa da sfondo a uno dei più interessanti libri di quest’anno, Le più fortunate (250 pagine, 17,50 euro) di Julianne Pachico, pubblicato dalle edizioni Sur, tradotto da Teresa Ciuffoletti. Il libro (ne abbiamo scritto qui), mosaico di undici racconti che dialogano fra loro, racconta la guerra ai trafficanti a partire dal 1993, nell’arco di una ventina d’anni; le protagoniste sono per lo più donne colombiane, figlie di uomini d’affari, politici, diplomatici, apparentemente rispettabili, ma in realtà coinvolti fino al collo nella criminalità e nello smercio di stupefacenti. Pachico ha incontrato i lettori italiani negli ultimi giorni e spiega anche il suo “rapporto” con gli scrittori del nostro Paese…

Pachico, è nata in Inghilterra, dove risiede, ha vissuto negli Usa, ma è cresciuta in Colombia, che non ha dimenticato. Perché resta per lei lo scenario letterario più interessante?

«È il luogo dove ho vissuto da bambina e adolescente, dove la mia personalità si è formata, il posto di cui sogno più spesso. È la terra più interessante da descrivere, perché, anche se è quella con cui ho il legame più forte, non ho mai sentito di appartenere a essa. Non ho un passaporto colombiano o geni colombiani. Essere un outsider credo sia utile per uno scrittore, aiuta a osservare le cose in modo diverso».

Considera Le più fortunate più un romanzo o una raccolta di racconti?

«In realtà neanche io ne sono certa! Fin dall’inizio sapevo di volere scrivere un libro che non fosse né un romanzo né una raccolta di racconti brevi. Volevo scrivere qualcosa che fosse frammentato. Mi piacciono i libri come Cloud Atlas di David Mitchell e volevo scrivere qualcosa di simile. In pratica, volevo scrivere quel tipo di libro che mi piace leggere».

Per lei sono più importanti i personaggi delle trame…

«Sì! Ma amo leggere romanzi più incentrati sulla trama. Mi piacciono i gialli e i thriller di scrittori come Patricia Highsmith e Don Winslow, che scrivono trame davvero forti».

Le più fortunate è un atto di accusa all’upper class colombiana, complice di violenze e delitti efferati…

«Credo ci sia un forte livello di complicità, di origine feudale e coloniale, tra i ricchi che approfittano della sofferenza delle persone deboli. E vale anche al di fuori della Colombia, ovviamente. Quello che mi fa arrabbiare è che restano impuniti, la fanno franca anche quando non dovrebbero. Gli avvocati e chi si occupa della difesa dei diritti umani in Colombia, che tuttora stanno combattendo per fare giustizia, sono i miei eroi personali. Scrivere sembra sciocco, paragonato a ciò che fanno loro».

Quanto è cambiata la Colombia dai tempi di Escobar?

«È cambiata tanto. Io sono nata nel 1985 ed Escobar è stato ucciso nel 1993. Adesso è una terra più sicura. Quando vivevo lì, non vedevo mai turisti e non era consigliabile viaggiare. Ora, quando faccio visita alla mia gemella che vive col marito a Medellin, incontro stranieri ovunque».

Le nuove generazioni di scrittori colombiani sembrano volersi discostare dal “monumento” Gabriel Garcia Marquez. Lei si sente più vicina a Juan Gabriel Vasquez, Santiago Gamboa, Pablo Montoya?

«Non so se Gabriel Garcia Marquez verrà mai dimenticato, è una figura talmente presente nella letteratura colombiana. Detto questo, amo molto Juan Gabriel Vasquez a Santiago Gamboa: entrambi sono andati oltre al cliché del “magico realismo” e scrivono libri che sono piuttosto differenti. Sono entrambi dei modelli molto forti per me. Ho una copia di un libro di Pablo Montoya da anni e devo assolutamente leggerlo, è molto famoso a Medellín. Personalmente, però, mi sento più vicina a una scrittrice come Silvana Paternostro, che ha scritto un’autobiografia molto intensa sulla sua infanzia in Colombia dal titolo My colombian war».

Ha vissuto un tour italiano che si conclude in Sicilia, terra che visita per la prima volta. L’Isola, come la Colombia, a livello internazionale è ancora percepita come un luogo violento e pericoloso?

«Non vedevo l’ora di arrivare. Mio padre, un economista, era solito partecipare ogni anno a una conferenza sull’economia della biotecnologia a Palermo, città che adorava. Ho viaggiato in molti posti che avevano fama d’essere violenti, ma sono stata derubata quando vivevo in una cittadina inglese…».

Ci sono autori italiani che hanno contato nella sua formazione?

«La mia conoscenza di autori italiani è molto scarsa, temo! Sono aperta a suggerimenti, specialmente se si tratta di autrici femminili o letteratura poliziesca. Come tanti altri nel mondo ho letto Elena Ferrante e amo il suo lavoro. Leggo solitamente le traduzioni, quindi mi piacerebbe poter leggere più autori italiani. Per fortuna, editori indipendenti come Europa Editions nel Regno Unito si stanno occupando della traduzioni di scrittori italiani».

A cosa sta lavorando?

«Ho finito il mio secondo romanzo, il cui titolo è The Anthill. Parla di due amici di infanzia che dopo 20 anni di lontananza si ritrovano a Medellín. Parla di perdono e di crescita. Spero possa essere pubblicato presto, a volte nel Regno Unito sono un po’ lenti. Adesso sto scrivendo molte storie brevi, solo per divertimento, senza pensare se verranno pubblicate o no, ed è davvero fantastico».

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