Cardaci: “Essere chi non si è porta a conseguenze tremende”

Intervista a Giacomo Cardaci, autore di “Zucchero e Catrame”: “Il mio è un romanzo di formazione dell’identità negativa e del desiderio negativo. Cesare, il personaggio principale, ha la mia capacità di guardarsi dentro. La scrittura? Nasce dalla memoria, per poi superarla. Sono ateo e mi auguro che la Chiesa sparisca nel terzo millennio”

«È un romanzo sulla formazione dell’identità, in particolare dell’identità negativa e del desiderio negativo. Tuttavia, io lo considero anche un romanzo sociale, su una Milano ai bordi, smarginata, brutale, perversa». Così Giacomo Cardaci, avvocato e socio di Rete Lenford, spiega il suo ultimo romanzo Zucchero e Catrame (282 pagine, 17,50 euro) edito da Fandango Libri. Racconta la storia di Cesare un bambino felice che chiacchiera e gioca a Memory con il suo circolo di Barbie. A scuola ha scelto Ines, detta Lines, come sua amica, una ragazzina bruttina e pelosa che non fa troppe domande, i pomeriggi invece, Cesare li trascorre con Giovanna, una donna che lo cosparge di profumo, detestata dai suoi genitori perché fomenta certe sue tendenze. La sua vita di paese viene stravolta completamente dall’improvviso trasferimento della sua famiglia in un mini appartamento ai bordi di  Milano. Nello stesso condominio di Cesare però, abita Gabbo, un ragazzo che il giovane ama dal primo istante: lui è tutto ciò che Cesare vorrebbe essere, il suo opposto, e per il quale è disposto a cambiare. Quando suo padre viene arrestato, Cesare decide di seguire Gabbo in quelle slabbrate vie di Milano, entrare nel giro e… smettere di essere Cesare. Scelta che gli costerà molto cara. Un libro, Zucchero e Catrame, con svariate sfumature e tematiche, dolori e sorrisi, noi abbiamo incontrato Giacomo Cardaci e abbiamo provato a saperne di più sul libro e … sull’autore.

Enfant prodige della letteratura, giurista rinomato, fondatore del gruppo di lettura LGBT di Milano: dica, Giacomo, dove sta la magagna?

«Che esagerazione! Di magagne ce ne sono parecchie. Ho sofferto molto nella mia vita, ma in qualche modo sono riuscito a trasformare le mie ferite più profonde in atti creativi. O perlomeno, in sete di giustizia e di narrativa».

Zucchero e Catrame è il suo ultimo romanzo – pubblicato per Fandango Libri – che sta riscuotendo successo, come è nato?

«Ero ossessionato dall’idea di raccontare come la sete di soldi possa avvelenare una famiglia. Come l’odio o la repulsione che subiamo da bambini possa plasmare la nostra identità, quando cresciamo. Come ognuno di noi possa essere vittima e carnefice, colpevole e innocente, zucchero e catrame. Fare cose schifose, non perché sia cattivo: ma perché ha vissuto con la famiglia sbagliata, nel palazzo sbagliato, nel quartiere sbagliato. L’idea sulla trama invece è nata quando ho studiato un fascicolo su una banda di giovanissimi ragazzi, “prede” poi trasformatesi in “predatori”, dentro cui va a cacciarsi il mio protagonista, la cui identità è un cantiere in costruzione».

Cesare, il protagonista del suo libro, è un ragazzino felice, in un primo momento, costretto poi a nascondere la sua vera natura quando scopre il mondo fuori dalla sua stanza. Essere o dover fingere di essere: un dilemma shakespeariano che non muore mai. Crede che, ancora oggi, sia necessaria l’autocensura per essere accettati? A lei è mai capitato?

«Di solito si pensa che siano gli adulti a indossare le maschere (al lavoro, coi parenti…), ma la verità è che alcuni bambini capiscono molto presto che è meglio non essere sé stessi ma plagiarsi, per tenere contenti i genitori, le maestre, gli amici. Tra questi bambini, i più indifesi sono quelli gay: se un piccolo ciccione viene sfottuto, o se un bambino di colore o islamico subisce delle angherie, probabilmente troverà a casa una tribù di parenti come lui che lo proteggeranno. Cesare, il protagonista, invece, viene detestato pure dalla sua famiglia, che si vergogna perché gioca con Miss Raperonzolo e con la sua amichetta pelosa e strampalata, Ines, che lui chiama Lines, come gli assorbenti: è assaltato su ogni fronte e, per sopravvivere, a un certo punto intuisce che deve soccombere, indossare una maschera. Ma se la maschera imitativa è quella sbagliata, quella di genitori criminali, questo non potrà che produrre danni terribili. Essere ciò che non siamo, alla fine, porta sempre a conseguenze tremende».

Le donne, nel tuo romanzo – la madre di Cesare, Giovanna, Ines – sembrano molto più indulgenti riguardo l’omosessualità di Cesare. È così? Perché?

«No, questo è un cliché. Ci sono donne molto omofobe e padri amorevoli nei confronti dei propri figli gay. Mio padre, quando ero bambino, era divertito nel vedermi danzare per casa agitando lo scettro di Sailor Moon che mi aveva lui stesso regalato. Quando avevo dieci anni, litigò con tutta la famiglia: era l’unico che brindava all’approvazione del matrimonio egualitario in Olanda. La differenza la fa il grado di cultura, non il genere. Tuttavia, c’è una cosa che non può essere sottaciuta: moltissime donne sono ancora oggi abusate o maltrattate, spesso in maniera subdola e sofisticata. Per questo sanno riconoscere più “sfumature” di dolore degli uomini, avendolo sperimentato per bene su sé stesse. In questo senso, Giovanna, la “fomentatrice” di Cesare, lo proteggerà fino alla fine: lo farà perché ha subito un abbandono, non perché è una donna».

Possiamo considerare Zucchero e Catrame un romanzo di formazione?

«Sì, ma attenzione: è un romanzo sulla formazione dell’identità, in particolare dell’identità negativa e del desiderio negativo. Tuttavia, io lo considero anche un romanzo sociale, su una Milano ai bordi, smarginata, brutale, perversa: in esergo ho citato il passaggio in cui David Copperfield è costretto a vendere il suo panciottino, e il viscido commesso contratta, tira giù il prezzo, in un gioco sadico e umiliante messo in atto contro un bimbetto di sei anni. Il mondo non è cambiato: c’è sempre chi sta di sopra, chi ha potere, chi non si accorge del tuo dolore, della tua condizione, chi non ha pietà di te e tira giù il prezzo. Ho riprodotto questo gioco al ribasso nel libro».

Cosa ha Cesare di Giacomo Cardaci?

«La capacità di guardarsi dentro, di capire chi è davvero: soltanto guardando al nostro passato, analizzando le nostre scelte, possiamo comprendere chi siamo davvero, e darci i punti di riferimento che non ci sono stati dati dagli altri. Cesare si libera dai propri spettri soltanto quando inizia a raccontare la propria storia. È la parola, a salvarlo».

Quando Cesare inizia a frequentare la scuola, si accorge della severità e del bigottismo delle suore nei suoi confronti. Uno scontro tra società civile e mondo religioso. A che punto siamo, secondo lei, in questo senso?

«Io sono ateo e mi sono sbattezzato. Auspico che la Chiesa venga superata dalla riaffermazione di valori illuministi e umanisti, e che finalmente scompaia nel terzo millennio».

Il trasferimento a Milano della famiglia di Cesare inciderà molto sul carattere di Cesare, in particolare dopo il suo incontro con Gabbo, un idolo, il sogno proibito, da amare e imitare. Muterà carattere, linguaggio e atteggiamento. È vero che i buoni che diventano cattivi, sono più cattivi dei cattivi?

«È vero che il primo amore di un giovane gay, nei confronti di un ragazzino etero, è devastante. La solitudine che Cesare prova è incredibile. Gabbo, i suoi muscoli, le sue ascelle, il suo cazzo, la sua bellezza bruciante, è tutto ciò che Cesare desidera. Ma Cesare non desidera solo Gabbo. Cesare desidera essere come Gabbo. Mandare a fare in culo i suoi genitori, dire tutto ciò che vuole, fare tutto ciò che desidera. Invece, come lui stesso ammette, non c’è niente di più lontano da ciò che è. Da adolescenti pensiamo a voler essere come gli altri, ma non veniamo abituati a capire chi davvero siamo».

Credo che per Cesare tornare a pensarsi com’era prima di arrivare a Milano significhi salvarsi dalla sua stessa pelle, quella che si è costruito nel tempo. Che valore ha per lei il ricordo?

«Cesare sa bene che il ricordo è, per definizione, una manipolazione: noi non ricordiamo mai gli eventi del passato per come sono davvero accaduti, nella loro dimensione oggettiva. Mentre li ricordiamo, li modifichiamo, li edulcoriamo, li soggettivizziamo. Si può dire che noi non abbiamo vissuto la nostra vita, ma solo la vita che noi stessi crediamo e ci diciamo di avere vissuto. Questo fenomeno è ciò che più mi affascina del ricordare. E ciò che più spaventa Cesare».

Cosa si augura per il suo futuro, Cesare?

«Amore. Cesare ha bisogno di qualcuno che lo ami per ciò che è davvero».

Come si legano per lei memoria e scrittura?

«La scrittura nasce dalla memoria. Ma in qualche modo, essa supera il ricordo: lo trasforma per farlo diventare una storia autonoma, diversa da quel che c’è stato. Talvolta, molto diversa. Per me è sempre così».

Quali sono i quattro romanzi, indispensabili, che secondo lei deve leggere uno scrittore? Quindi anche i suoi…

«Mi vengono subito in mente i romanzi che più mi hanno scosso, mentre scrivevo il mio, e che in qualche modo mi hanno influenzato: L’arminuta di Donatella di Pietrantonio; I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante; Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout; Era mia madre di Iaia Caputo».

Qual è il luogo in cui scrive Giacomo Cardaci?

«È un segreto».

Ha mai avuto il blocco dello scrittore?

«Sì, ma tengo sul comodino un articolo molto interessante intitolato “Perché ci coglie la paura di fronte alla pagina bianca”, di Massimo Recalcati, secondo cui “L’esperienza traumatica che può affliggere chi scrive e anche grandi autori o grandi pittori ha origine, secondo Freud e Lacan, nella cosiddetta “fase anale”. Si ha il timore del giudizio che gli altri posano esprimere e dunque si trattiene il prodotto della propria creatività, restando imprigionati e coltivando un’immagine ideale di sé»

Progetti futuri?

«Non divorziare dal mio marito meraviglioso, che tiene a freno i miei diecimila progetti: lui è solido e concreto, ha limiti precisi e duri, mentre io, purtroppo, sono liquido e astratto».

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