Casagrande: “Schiele, quel conformista e le sue donne”

Per Romina Casagrande, autrice de “Le ragazze con le calze grigie”, letteratura e arte sembrano essere un binomio imprescindibile: “Mi interessano le storie, le vite comuni di chi intrecciò la propria esistenza con quelli che oggi consideriamo geni. Racconto l’indecifrabile maestro viennese e le sue donne, dimenticate ma fondamentali per la sua arte”

Ne Le ragazze con le calze grigie (197 pagine, 15 euro), pubblicato da Arkadia editore, la penna di Romina Casagrande, attraverso le voci di due donne, ri-scrive una storia controversa e pericolosa:quella tra Egon Schiele, celebre artista dell’Espressionismo viennese, e la sua eterna musa, Wally Neuzil; ma anche quella tra Schiele e la donna che infine divenne sua moglie, Edith Harms. Un incastro di amore, arte e tormenti che ricalcano, dell’artista, un profilo caratteriale nuovo,  e forse poco noto, per chi, dello Schiele artista ha una visione maledetta e scandalosa, mentre dello Schiele uomo invece, probabilmente, nessuna: «Schiele era più conformista di quanto la leggenda ci trasmetta. Le vere ribelli, che seppero mostrare coraggio vivendo fino in fondo le proprie scelte in un mondo che tendeva a stigmatizzare e incasellare senza via di ritorno, furono le donne che decisero di stargli accanto quando non era nessuno e chiedeva ai suoi mecenati i soldi per comprare i colori».

Casagrande, perché Schiele?

«Conoscevo Schiele dai tempi del mio primo viaggio a Vienna, alla fine degli anni Novanta. Allora, però, non sapevo quasi nulla di lui, se non che fosse una delle punte dell’Espressionismo austriaco. Mi era difficile persino ricondurre la sua tavolozza scura e le sue linee spezzate all’armoniosa solarità, al decorativismo rassicurante del Maestro, il celebre Gustav Klimt. La Famiglia, il grande quadro che mi trovai di fronte quando visitai la Galleria Belvedere, fu un pugno nello stomaco. Raffigura una famiglia ideale che di “ideale” in realtà ha ben poco e che non esistette, non per come il pittore l’ha consegnata al pubblico. Il bambino di Egon ed Edith, infatti, non vide mai la luce perché la madre morì di febbre spagnola quando era al sesto mese di gravidanza. Egon, il volto simile a una maschera, chiede allo spettatore di ascoltare la sua storia, portandosi la mano sul petto. Fu il suo ultimo quadro, il suo testamento artistico e umano. Pensavo avesse qualcosa di importante da raccontare, qualcosa che restava misteriosamente celato dietro le sue labbra serrate. E l’ho ascoltato».

Perché raccontare la storia dell’artista viennese usando la voce delle donne che hanno fatto parte della vita di Schiele: Wally Neuzil ed Edith Harms?

«Quando conobbe Egon, Wally aveva circa sedici anni, era una ragazzina. Ma aveva già lottato per sopravvivere in un mondo estremamente duro, maschilista. Dalla campagna fu catapultata nelle vie della capitale imperiale, non sempre accoglienti, non sempre piene soltanto di luce. E sopravvisse. Fino a quando incontrò Egon. Affrontò la relazione con un uomo che definire impegnativo è un eufemismo (narcisista, ambiguo, contraddittorio, a detta di chi lo conobbe), dimostrando una forza e un carattere  notevoli. La sua scelta ultima – la decisione che contraddistinse la seconda fase della sua vita – è forse l’espressione più alta della sua maturazione come donna e come persona. La vita del genio è interessante, ma se vai a indagare e cerchi fra le pieghe, è fatta di sentimenti, intoppi, comuni e banali, come studio assiduo e metodico, frustrazione, noia. Senza Wally, l’arte di Schiele sarebbe stata molto diversa. La loro relazione segna, secondo me, il punto più caratteristico della produzione dell’artista. E la voce di Wally, seppure nella sua assenza e nei suoi silenzi dopo l’inizio della relazione fra Edith ed Egon, sarà fondamentale anche in quella successiva. Raccontare Schiele dal punto di vista di una donna – anzi due, dal momento che nella seconda parte del romanzo è Edith a narrare la sua storia – mi ha permesso di avvicinarmi alla complessità di un uomo estremamente sfaccettato e indecifrabile. Al tempo stesso ho voluto versare luce su due protagoniste della sua arte troppo spesso dimenticate».

Una vicenda assai controversa e affascinante come poche, quella che ruota attorno all’artista viennese, come si è documentata per ricostruire la sua storia?

«Il contesto storico era già delineato nella mia mente. E anche quello culturale, in parte: la città in cui sono nata e in cui vivo apparteneva allo stesso impero austroungarico fino ad anni non troppo lontani. Un ramo della mia famiglia è di lingua tedesca e le tradizioni teutoniche sono ancora molto presenti. La conoscenza della lingua mi ha aiutata molto. Per capire chi fossero Egon Schiele e le donne più importanti della sua vita, sono partita da quanto io ritengo più intimo: le lettere, i biglietti, spesso poche frasi scritte di getto, ma che conservano la freschezza dei sentimenti autentici e la verità di cuori impulsivi. Poi ho visitato i luoghi. E lì, proprio nei luoghi – gli atelier, le case, i parchi, il carcere – li ho visti muoversi. È stato un lavoro che ha occupato circa sei mesi di ricerche serrate. La stesura è stata più veloce».

Che arte è quella di Schiele?

«Un’arte ambigua come il suo creatore. Un’arte che pensi di aver compreso e invece ti sfugge. Colpisce, è irriverente, onesta con se stessa. è l’anima di un uomo che senza inibizioni offre al pubblico se stesso, la propria carne, vivisezionando oggi stato d’animo, ogni fremito che incide nella tela, quasi fosse una seconda pelle. Al centro c’è l’uomo, l’uomo sul baratro della prima guerra mondiale, con un piede ancorato nel mondo ordinato dell’Ottocento, ma che sta già spiccando il balzo e non ha paura né vuole guardarsi più indietro. È un’arte che disturba, coraggiosa. Un’arte ancora di grande attualità».

Alla luce di quello che ha studiato, che uomo era, secondo lei, Schiele?

«Più conformista di quanto la leggenda ci trasmetta. Le vere ribelli, che seppero mostrare coraggio vivendo fino in fondo le proprie scelte in un mondo che tendeva a stigmatizzare e incasellare senza via di ritorno, furono le donne che decisero di stargli accanto quando non era nessuno e chiedeva ai suoi mecenati i soldi per comprare i colori. Egon Schiele era un metodico, ma quello che apprezzo di lui è l’amore per l’arte, il suo credere in essa, nelle proprie capacità, nonostante tutto e tutti. Non fu molto amato. E il successo lo raggiunse soltanto pochi mesi prima di morire. Ma quello che sarebbe stato, lui lo aveva sempre visto, gli era sempre stato chiaro.”La fiducia in se stessi è il fondamento del coraggio”, una frase che scrisse in una lettera indirizzata allo zio e che mi ha guidata nella ricostruzione del personaggio».

Le chiedo un giudizio: secondo lei perché Schiele scelse di sposare Edith Harms e non la sua Wally?

«Poco prima di sposare Edith, Egon scrive al suo mecenate, Arthur Roessler, informandolo dell’intenzione di convolare a nozze “in modo opportuno, non certo con Wally”. ‘L’affare Neulengbach’ sembrava ormai alle spalle, ma le voci intorno al presunto stupro non si erano ancora spente del tutto e Vienna era diffidente, non sembrava ancora pronta a riaccoglierlo. I suoi quadri non si vendevano e lui stesso era spesso costretto a spiegare sbrigativamente l’accaduto ai possibili acquirenti, minimizzando per rassicurarli. Edith veniva da una rispettabile famiglia borghese e dopo il matrimonio i contatti con la buona società per Egon ripresero, migliori e più saldi che un tempo. Guardandola così, si potrebbe pensare che Edith sia stata il suo lasciapassare, colei che gli restituì onore e legittimità all’interno di un mondo, quello borghese, che in fondo Schiele da sempre voleva penetrare. Continuò però a ritrarre Wally, in quadri molto malinconici e di forte impatto che presentano entrambi come vittime. Nonostante questo, penso che in Edith abbia trovato una donna che lo amava con sincerità e devozione, capace di placare in parte i suoi demoni».

Letteratura e arte sembrano, per Romina Casagrande, un binomio imprescindibile, da cosa nasce questa fascinazione?

«È soprattutto l’interesse per le storie. Le vite di persone comuni che si trovarono a condividere parte del loro percorso con uomini che oggi consideriamo geni, dimenticando che quell’arte senza le modelle, le muse, non sarebbe stata la stessa. Trovo ci sia grande coraggio e insegnamento nel percorso che una modella, una musa, deve compiere per liberarsi dalla cornice che la intrappola nei confini di un quadro, per ritornare a essere vera e riacquistare una sua propria essenza. La perdita del proprio nome per l’Arte è uno scotto che dovettero pagare in molte (in epoche in cui la figura della modella era equiparata a quella della prostituta), ma è una traccia, quella della loro riscoperta, che ormai si sta intraprendendo grazie alla narrazione. Il bacio di Klimt perderebbe molto del suo romanticismo se si andasse a riscoprire la vita di Emilie Floege, sua eterna fidanzata, tradita per uno stuolo di modelle più giovani che diedero al Maestro un’infinità di eredi più o meno riconosciuti. Forse, però, si riporterebbe alla luce una storia più vera e più significativa».

Romina Casagrande ha anche scritto libri fantasy, se possiamo definirli così, che tipo di correlazione c’è, se c’è, con il mondo dell’arte?

«Più che fantasy, definirei il genere come “fantastico”. Sono sempre partita da personaggi, o da luoghi, reali. Figura principale del mio romanzo d’esordio è Margarete Maultasch, ultima contessa del Tirolo. Sposa bambina, giovane donna accusata di essere strega, si libera del marito, impedendogli di rientrare nel loro castello dopo una battuta di caccia. Il “poveretto” si trovò il portone sbarrato e dovette battere in ritirata, tornando da mamma e papà. Ma non senza gravi conseguenze per Margarete. La Chiesa scomunicò lei, le sue terre, e da allora si parla di “maledizione della contessa”. Sembra che sul Tirolo si abbatterono terribili calamità (terremoti, invasioni di cavallette e, non da ultima, un’epidemia di peste) che le vennero attribuite. Nella mia prima narrazione l’elemento magico nasce da quello storico e ha più a che fare con la leggenda. Togliendo il velo del mito e, in questo caso, del vituperio di carattere misogino, ciò che resta è la storia di una donna realmente esistita e che soffrì molto, ma che fu anche in grado di dimostrare grande coraggio, salvando il suo castello da un assedio e sopravvivendo a lutti dolorosi che la potarono infine a ritirarsi e a cedere il Tirolo agli Asburgo. Il binomio tra arte e fantasy non è casuale. Apprezzo molto alcuni disegnatori che si sono lasciati ispirare dal genere e, in fondo, tutto nasce da una fascinazione di tipo visivo. Anche il mio modo di creare le storie: prima devo vedere le scene nella mia mente, soltanto allora riesco a raccontarle».

A cosa sta lavorando adesso?

«Al momento sono catapultata nella Montmartre dei primi del Novecento. Ma… basta pittori uomini. Si parla di una donna molto particolare che diceva di essere ‘figlia della tempesta’. Seppe dare del filo da torcere a Renoir, Toulouse-Lautrec e, per prima, capì la grandezza di Van Gogh».

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