Schiavone, fare la vita senza zuccheri aggiunti

“Dolcissima abitudine” è un racconto semplice e vero, quello di un’esistenza presa in consegna da uno sguardo mai moralista: Schiavone scrive la storia di Rosa, una prostituta che s’è costruita un tetto di normalità, ma non ha mai conosciuto emozioni distaccate dal corpo

Proporre una realtà, narrarla, scavarla, buttarla in faccia al lettore densa, piena dei suoi problemi, delle sue contraddizioni: questo deve – o dovrebbe – fare la letteratura. Questo, a tutti gli effetti, è quel che fa Alberto Schiavone nel suo ultimo romanzo, Dolcissima abitudine (252 pagine, 17 euro), pubblicato dalla casa editrice Guanda. È una storia apparentemente semplice, che vede protagonista una donna, personaggio centrale dalla prima all’ultima pagina. Rosa è una prostituta, pratica il mestiere da quando è ragazzina e non ha mai cercato di deviare rispetto a un percorso che sembra esserle cucito addosso naturalmente. La sua vita, in un arco di circa mezzo secolo, è presa in consegna dall’autore che la snocciola in un racconto vero, senza zuccheri aggiunti. Ne esce il ritratto di una vita forse biasimabile, di sicuro non stereotipata: un’esistenza tutto sommato mite, graffiata ma presa in consegna da uno sguardo mai moralista.

Due donne in una

C’è Piera, in questa storia, e poi c’è Rosa. La prima è la ragazzina che, ereditando dalla madre il mestiere, non si prende la briga di immaginare un futuro diverso e costruisce sulla propria prostituzione un’autentica carriera. Eccola, Rosa: la professionista dell’amore, nome d’arte obbligatorio. Siamo a Torino, una città che filtra anno dopo anno dalle finestre delle case di Rosa, via via che la sua storia procede come un film. A dare il la è l’incipit del romanzo, la scena in cui la Rosa ormai sessantenne assiste al funerale del suo ultimo cliente: il tempo è passato, tante cose sono cambiate, e quei petali così freschi sono fiaccati dall’età, e da una vita di storie, amanti, desideri e segreti,

Nella Torino delle case chiuse, poi vietate, si succedono così le ere storiche, la grande industria, gli anni grigi e quelli del boom. Rosa diventa una prostituta conosciuta, cercata e rispettata. Uscita dal bordello “si mette in proprio” e costruisce intorno a sé un tempio, in un’esaltazione attenta del proprio corpo, strumento principe di una professione che a tutti gli effetti è vissuta come tale. Rosa non sembra avere affetti e sentimenti, nascosti o mai nati, tenuti insieme ai frammenti di Piera, la stessa che a sedici anni ha avuto un figlio che subito, per compravendita, le è stato strappato.

Una storia semplice

È in apparenza una storia – e una vita – semplice quella della prostituta Rosa, apprezzata dalla clientela e, nel corso del tempo, attenta alla gestione del proprio patrimonio economico grazie a un commercialista di fiducia. Semplice come la vita di una prostituta non apparirebbe: perché in fondo, nella quotidianità di un lavoro che diventa normalità, tutto procede regolare per la protagonista. Tutto resta uguale, anno dopo anno, uomini che si avvicendano con circolarità e ricorrenze, la casa, forse anche il vuoto, quello che serpeggia di tanto in tanto nell’agenda di impegni di Rosa. Si manifesta a Natale, quando invece di partecipare al pranzo dalla sorella, sfruttando l’ingente patrimonio Rosa si fa portare in taxi in giro per la città. Si manifesta nella ricerca, sempre più ossessiva col passare degli anni, del figlio perso da ragazza.

Tra sporco e dolcezza

Diventare prostituta è stato un destino ineluttabile per Rosa, contro il quale non ha mai lottato, ma che si è andato costruendo come un tetto di normalità. È fiera, la protagonista di Schiavone, della sua riguardevole posizione, raggiunta dopo anni di professione. Ha fatto i miliardi e può vivere tranquilla, agiata, permettersi ogni sfizio. Ma tempo e voglia per gli sfizi, Rosa non ne ha poi molti. I suoi sono, piuttosto, miliardi che urlano la povertà di una donna che non ha mai conosciuto affetti ed emozioni distaccate dal corpo, al centro di tutta la propria vita. Non è capace, Rosa, di modulare gli affetti che prova per la sorella, da sempre distante e sprezzante nei suoi confronti, per qualche cliente storico, e naturalmente per il figlio. C’è come un impulso, una spia luminosa che le indica la direzione, ma Rosa oltre alla soglia fisica che costruisce intorno al ragazzo non sa andare. Si schianta così qui, in questa voragine, la contraddizione che rende speciale e piena di domande questa storia. Rosa non è completa: è la Piera mancata, quella dimenticata, quella abbandonata e sola per una vita intera. Ed è in questo cono d’ombra che Schiavone ha intravisto la luce di una storia capace di solleticare riflessioni e interrogativi nel lettore.

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