Valerio: “I sentimenti involontari e la scrittura che s’impara”

Intervista a Chiara Valerio, autrice del recente “Il cuore non si vede”, candidato al premio Strega: “Vivo con colpa l’ossessione di non sapere scegliere, Andrea, protagonista del mio romanzo ha la stessa ossessione. Lo Strega? Un confronto col mondo culturale. Si va in battaglia con lo stesso spirito sia che si vinca, sia che si perda. Elena Ferrante? Mi piace”

«La scrittura è qualcosa che si impara, come tutto. Non si nasce scrittori, ma forse si può crescere scrittori. O così mi è sempre sembrato». Parola di Chiara Valerio – fra le più apprezzate scrittrici italiane ed editor per Marsilio – il cui più recente romanzo (di cui abbiamo scritto qui) è Il cuore non si vede (Einaudi), candidato al premio Strega.

Chiara Valerio, si è consumato anche questa volta il rito secondo cui compera un paio di nuovi occhiali dopo aver consegnato il romanzo all’editore?

«Non per mia volontà. Ho dovuto comprarli perché ho perso gli altri. Dopo essere andata due giorni in giro con gli occhiali da sole, mi sono decisa a fare il passo. Ora ne sono molto contenta».

Il protagonista del suo ultimo romanzo, Andrea, si sveglia una mattina senza cuore; è un modo per dire che i sentimenti sono incompleti o perfino involontari?

«Io credo che i sentimenti siano spesso involontari. Dove, in questo caso, involontario significa che non dipendono solo da una persona o due, da un momento, da un’età e da un colore di occhi, ma da molte cose insieme, impossibili da districare o dividere. Dunque involontario vuol dire incontrollabile».

Nella vita ha incontrato tanti uomini incapaci – come Andrea, che ha anche due relazioni in contemporanea – di decidere?

«La mia ossessione è non essere in grado di scegliere. Una ossessione che vivo con colpa. Vorrei essere in grado di scegliere perché non scegliere è un difetto morale. Ecco Andrea Dileva è forse l’ostensione, il racconto di questa ossessione».

Non ha un cuore, Andrea, ma è vivo. Non trova analogie con la sua condizione nella mitologia, né conforto nella scienza o nella religione. Forse solo le donne lo sorreggono; è un romanzo sulla solitudine e sull’importanza delle donne?

«Non so, è un romanzo sulle relazione. Sul contrario della solitudine insomma. È un romanzo che dice forse “Esistiamo insieme agli altri!”, che gli esseri umani hanno senso insieme e non uno per uno. E che le nostre mitologie sono per eccesso, ma è possibile costruire mitologie mancanti nella quali tutti abbiamo un nostro posto. Ecco io vorrei scrivere libri che somiglino, nell’effetto, ai libri che ho letto e che continuo a leggere, a darmi una versione della realtà e della vita, che non sia la verità ma che sia raccontabile, che dunque mi dia la possibilità di parlare con gli altri».

Fra tante forme ibride che vanno per la maggiore, all’estero e in Italia, sembra vintage la sua scelta di scrivere un romanzo. Lo crede anche lei?

«Io credo che i romanzi siano tante cose. Anzi, se devo dirle la verità, io penso che tutto sia romanzo. Ogni volta che cambi il tempo in cui racconti o analizzi un fatto, e lo fai ogni volta che scrivi, sei più vicino al romanzo che a qualsiasi altra forma. Volevo scrivere una storia con meno divagazioni del solito. Ma di certo questo libro è pure un compendio di mitologia con una cornice narrativa intorno».

«La cultura è l’unico bene che quando viene diviso tra tutti aumenta, invece di diminuire. Leggere non serve, leggere comanda. Un suo intervento di grande freschezza e sincerità, di pochi minuti, al programma della Rai Stati generali, ha raccolto molti consensi, diventando quasi virale. Si è data una spiegazione?

«È la chiusa, leggere non serve, leggere comanda. È la sorpresa di dare al verbo servire una interpretazione esatta ma inaspettata. Io penso che la grammatica abbia sempre la potenzialità per diventare virale. La grammatica è come il comico, stupisce. fa divertire, fa ridere. Ha regole ferree ed è aerea. Leggere non serve, leggere comanda mi fa l’effetto di un passo di danza eseguito bene, mi fa dimenticare l’esercizio per seguire il volteggio. Mi diverte. D’altronde lo avevo pensato per i miei studenti a scuola: studiare non serve, studiare comanda ripetevo. Se ha funzionato con loro, deve funzionare. Non ho trovato ascoltatori più intransigenti degli studenti delle scuole superiori».

Le regole che hanno cambiato lo Strega negli ultimi anni l’hanno reso più imprevedibile. Sono quattro i titoli Einaudi in corsa e c’è Giuseppe Lupo, autore Marsilio, per cui lei è editor. Che valore dà alla competizione e agli incroci?

«Il cuore non si vede è il mio nono romanzo, penso che se scrivi può capitarti di essere proposto al Premio Strega. E penso che se sei uno scrittore e pubblichi scrittori può capitare di trovarti a gareggiare con un autore che pubblichi. Ma non siamo io e Giuseppe, che ci conosciamo e ci parliamo, a essere in gara, sono i nostri libri, noi siamo dietro. Storicamente poi, l’editoria italiana è stata fatta da scrittori e poeti, che hanno partecipato e qualche volta vinto premi, penso a Natalia Ginzburg, Calvino, Vittorini, Pavese. Sono combinazioni che possono capitare e capitano. Poi due cose, la prima è che sono scaramantica dunque se ricevo una candidatura al premio Strega e mi sottraggo, come faccio da editore a convincere i miei autori ad accettare una candidatura? La seconda è che quando si scrive è importante, per l’autore, confrontarsi col mondo culturale, e lo Strega è questo, un confronto col mondo culturale. Io vorrei somigliare alle cose che dico, o almeno provarci».

Il precedente del 2019 – due autori Einaudi, Terranova e Missiroli, in cinquina, e voti di scuderia in ordine sparso che hanno favorito Scurati – andrebbe scongiurato o non crede nei tatticismi?

«Perché andrebbe scongiurato? Si va in battaglia con lo stesso spirito sia che si vinca, sia che si perda, dunque la vittoria è un punto e tutto il resto è un intervallo. Negli intervalli succedono cose. E penso che sia Nadia Terranova che Marco Missiroli abbiano fatto, insieme e dietro ai loro libri, un eccezionale percorso».

Che opinione ha del fenomeno e della qualità letteraria di Elena Ferrante? Gli elogi nei confronti degli esordi e le critiche spietate verso i romanzi di successo sono una tipica parabola italiana?

«Posso dirle che a me Elena Ferrante piace. Posso dirle che sono affezionata ai primi ma perché li ho letti da molto ragazza e dunque mi affezionavo con più memoria e dunque con più trasporto».

Tra gli scrittori italiani delle nuove generazioni ci sono alcuni che consiglia di tenere d’occhio?

«Ginevra Lamberti, Giorgio Ghiotti, Ida Amlesù, Jonathan Bazzi, e Nicola Ingenito (se si decidesse a scrivere). Tuttavia non mi è mai piaciuta la classificazione degli scrittori per generazione. Come definirebbe Marcello Domini, esordiente di 55 anni al suo primo (bellissimo) romanzo (Di guerra e di noi, in uscita per Marsilio, ndr)? Io lo definirei un giovane scrittore. La scrittura è qualcosa che si impara, come tutto. Non si nasce scrittori, ma forse si può crescere scrittori. O così mi è sempre sembrato».

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