Grillo, i tagli sanguinanti attraverso l’esercizio della memoria

È un talento narrativo al servizio delle donne, quello di Michelle Grillo, autrice de “Il tempo che resta”, romanzo così coinvolgente da potere essere letto in un’unica soluzione. La povertà, l’ignoranza e la grettezza della cerchia familiare condizioneranno per sempre la gestione dei rapporti umani di Anna, la protagonista, che non cerca conforto o pietà, ma cattura l’indulgenza e l’empatia del lettore…

Page turning è l’efficace espressione inglese con la quale si indicano quei libri, ad elevatissimo tasso di coinvolgimento, che si divorano con un frenetico voltare delle pagine nel minimo arco di tempo possibile. Appartengono a tale categoria, per fare un esempio, best seller quali Il codice da Vinci di Dan Brown. Mai avrei pensato di correlare la definizione a Il tempo che resta (143 pagine, 12 euro), di Michelle Grillo, Alessandro Polidoro editore. Evidentemente però, le vie della letteratura sono infinite. Non c’è stata, per me, la benché minima possibilità di opporre resistenza alle 143 pagine nelle quali si compie la storia della protagonista, Anna Gargiulo. Nemmeno un velleitario tentativo di centellinarle: come da manuale del perfetto “volta pagina”, le ho divorate in un’unica sera. L’etichetta, dunque, più che opportuna.

Poche righe da un diario

«Sono morta ma nessuno se n’è accorto. Non ricordo di preciso com’è successo. Non c’è stato il funerale, neanche un fiore, né lacrime per me. Sono morta e invece di chiudermi in una cassa mi hanno portata qui»
Queste poche righe, tratte dal diario di Anna, sono la porta di accesso al romanzo.
Un incipit di tutto rispetto, capace di dare al lettore un immediata idea della storia in cui sta andando a cacciarsi e del ritmo con la quale si troverà a cavalcarla.
Chi è Anna, cos’è questo disadorno sacello, chi l’ha costretta in tale condizione di isolamento e soprattutto per quale ragione? Ce lo svela lei stessa, grazie alla sua voce, io narrante del romanzo.

Una danza tra ieri e oggi

Alternando un capitolo dove si immerge nel presente nebuloso della sua condizione attuale di cui ha rimosso ogni dettaglio pregresso, ad uno dove ritorna nel passato ad avvolgere i fili dei ricordi a cui ha deciso di aggrapparsi, Anna racconta a sé stessa, prima ancora che al lettore, l’intera sua parabola esistenziale a partire dall’infanzia. Una danza altalenante tra ieri e oggi che chiarisce le radici di una personalità a tratti accidiosa, e motiva lo stato simil-catatonico in cui ora si è sigillata. Tenere le mani perennemente affondate nelle ferite che la marcano per ostacolarne la cicatrizzazione, mantenere i tagli costantemente sanguinanti attraverso l’esercizio della memoria, è per lei una vera e propria necessità. È una pratica del dolore divenuta viatico per preservare intatti gli odi e i risentimenti verso i familiari e le altre figure che le hanno nuociuto, oltre che per dissociarsi dalla propria colpa.

Perenne passività

Figlia di umilissimi contadini, schiavi di quella terra dalla quale traggono a stento di che sfamare i tre figli, allevata per seguirne le orme, precocemente avviata alle incombenze domestiche che svolge puntale ogni giorno prima di recarsi a scuola, Anna condivide con la sorella anche il ben più gravoso compito di allevare, in vece materna, il fratello affetto da deficit cognitivi. La rinuncia ad intraprendere gli studi liceali, unica ipotesi di salvezza dall’indigenza e dall’arretratezza socio-culturale, impostale dalla mamma interessata solamente a capitalizzare il massimo risultato con il minimo dispendio economico (un diploma tecnico che preluda subito al lavoro), segna il punto di non ritorno verso l’isolamento e verso un atteggiamento di perenne passività nei confronti della vita. La povertà, l’ignoranza e la grettezza, che scandiscono le modalità dei contatti umani all’interno della cerchia familiare, la condizioneranno nella gestione dei rapporti umani, imponendole una corazza fatta di insicurezza e di inadeguatezza che si costringerà ad indossare per sempre.

Il silenzioso universo femminile

Ho conosciuto Michelle Grillo in occasione della prima presentazione di questo suo secondo romanzo, quando ho anche appreso che ne aveva già uno all’attivo: Io sono qui, ugualmente edito da Alessandro Polidoro. L’impressione che ho tratto ascoltandola parlare de Il tempo che resta, ma soprattutto l’idea che mi sono fatta di lei leggendo il libro, è che con esso abbia voluto mettere il suo talento narrativo al servizio delle donne, soprattutto di quante animano l’universo femminile silenziosamente, per scelta o perché obbligate dalla povertà di strumenti posseduti. Determinata a dare voce al loro disagio, alle loro tristezze, alle loro difficoltà, ai loro dolori, la sua penna procede conquistando l’obiettivo con un tratto perentorio, ruvido, estremamente controllato, tre qualità che conferiscono alla scrittura – irreprensibile e straordinariamente matura – una personalissima gradazione di bellezza. Non stupisce affatto che abbia saputo trovare, tra la crudezza e il rigore, uno spazio per la tenerezza, carpita con facilità al lettore. L’indulgenza e l’empatia nei confronti di Anna, infatti, fioriscono con naturalezza, nonostante lei dichiari di non aver bisogno di conforto o di pietà. «Ho imparato che non si cade mai definitivamente in basso e che il fondo non esiste affatto». Quello che ancora le sfugge, o piuttosto non vuole ammettere, è che, come per la sua compagna di stanza, l’hanno chiamato puttana, poveraccia, stronza, ma buona mai. Magari quella la ragione per cui si trova lì. E magari Michelle Grillo ci ha raccontato la sua storia perché fossimo noi a tributarle l’affettuoso, sebbene tardivo apprezzamento, simbolicamente estensibile a tutte le altre Anna della terra.

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