Il pianista di Robijn e le nefandezze del colonialismo

Può sembrare una sorta di mistery suburbano con venature noir, “Congo Blues” di Jonathan Robijn, che invece punta gli occhi sui danni lasciati dal Belgio nella colonia africana: solchi non solo economici, ma nelle vite di tanti esseri umani, a cominciare dai figli dei matrimoni misti, portati via dal Congo

Chi sei? Da dove vieni? Chi sono i tuoi genitori? Cosa fanno? Sono domande banali, che tutti – durante l’infanzia – ci siamo sentiti rivolgere chissà quante volte. Nome, cognome, data e luogo di nascita: «sono il figlio di… mio padre lavora lì, mia madre…». Routine. Normale routine. Ma provate a pensare per un attimo, se a queste domande non foste in grado di rispondere.

Chi sei?
Da dove vieni?
Chi sono i tuoi genitori?
Cosa fanno?
Come sei arrivato qui?

Nebbia sul passato

L’assenza/privazione delle cose che diamo per scontate può gettarci nel panico. Morgan, il protagonista di Congo Blues (172 pagine, 16 euro) di Jonathan Robijn, a dire il vero non si lascia mai prendere dalla disperazione: in maniera quasi fatalistica sembra riuscire a convivere con la nebbia che avvolge il suo passato. Eppure, come tutti, anche Morgan ha dei genitori biologici, è nato da qualche parte, per qualche motivo è stato portato via ed è finito in Belgio, dove vive (a stento) suonando il pianoforte. Ma la curiosità è come una molla e basterà poco – una ragazza che compare quasi casualmente sulla scena – sulla quale Morgan inciampa la notte di capodanno del 1988, a farla scattare. Una curiosità irrefrenabile che lo porterà alla ricerca delle proprie radici.

«Morgan non si accorgeva che la sua indagine sull’identità altrui lo stava portando vicino alle proprie radici»

Bionda, bella e misteriosa

A fare da sottofondo a questo delicato (e riuscitissimo) romanzo del belga Jonathan Robijn, portato in Italia dalla casa editrice Marsilio e tradotto egregiamente da Laura Pignatti, è la musica jazz, un genere che ha di suo una forte connotazione nostalgica che spesso sfocia nella tristezza. Morgan è nato in Congo ed è arrivato piccolissimo a Bruxelles. Della sua infanzia non ricorda quasi nulla. Vaghe tracce, più che altro impressioni, sensazioni, e contaminazioni africane che di tanto in tanto riempiono i suoi sogni. La svolta arriva quando il giovane pianista di colore si imbatte in una ragazza che dorme al gelo e che decide di portare a casa sua per evitare che muoia assiderata. Simona è bionda, bella e misteriosa. Apprezza la musica di Morgan, parla poco di sé ma non lesina domande, e tiene una borsa con tantissimi soldi. Dopo un paio di settimane la ragazza svanirà nel nulla, così come era comparsa.

Lasciare intendere senza svelare

Ma la fugace convivenza, la magia di quell’incontro, non spariranno con lei. Morgan vuole sapere che fine ha fatto Simona e indagando si imbatterà nel proprio doloroso passato. Andando alla ricerca di Simona conoscerà altre persone, talvolta enigmatiche tanto quanto la ragazza, e a poco a poco capirà e finirà per chiedersi se quella notte di capodanno Simona era lì per caso. La storia catalizza in fretta l’attenzione del lettore, grazie anche a una prosa morbida e avvolgente, e soprattutto grazie ad un intreccio intessuto con maestria dall’autore, abilissimo nel lasciar intendere senza mai svelare del tutto, nel lasciare ogni porta aperta, nel far sembrare Congo Blues una sorta di mistery suburbano con venature noir.

Chi è Morgan, veramente?
Da dove è arrivato in Belgio?
Qual è il suo passato?
Chi sono i suoi genitori?
E dove sono adesso?

Il romanzo di Robijn è soprattutto un pretesto per gettare uno sguardo inquisitorio sulle nefandezze del colonialismo in terra d’Africa, sui tragici solchi che ha lasciato, sugli enormi danni che ha provocato, non solo alla cultura e all’economia del continente nero, ma anche alle persone, ai singoli esseri umani, alle migliaia di madri e ai loro figli portati a forza in Belgio alla fine del periodo coloniale.

«Eravamo quasi onnipotenti. Potevamo fare tutto quello che volevamo. Ci controllava solo il Signore. E lui, quando andavamo al di là delle nostre competenze, taceva»

Di feroce attualità

Un romanzo che potrebbe sembrare legato al passato, un passato ormai superato verrebbe da dire, ma che invece è attualissimo perché i legami tra il Belgio e l’ex colonia africana non sono mai stati recisi del tutto. «A nome del governo federale, presento le mie scuse ai meticci dell’età coloniale belga e alle loro famiglie per le ingiustizie e le sofferenze che hanno patito». Questa frase è stata pronunciata dal primo ministro belga uscente Charles Michel, non qualche decennio fa, ma lo scorso 5 aprile. Il riferimento è ai rapimenti di bambini meticci congolesi compiuti tra il 1959 e il 1962, gli ultimi anni della dominazione belga. Ai tempi le leggi di Bruxelles proibivano i matrimoni interrazziali e quei bambini nati da coppie miste erano, loro malgrado, la prova della violazione di tali leggi. Pertanto sovente venivano strappati alle loro madri e portati in Belgio per essere adottati. Come è successo a Morgan. E sono stati migliaia i bambini sottratti alle famiglie locali dagli occupanti. Un dramma nel dramma che Robijn illumina senza mai eccedere, raccontando i fatti attraverso una storia che prende in fretta il sopravvento sulla prosa e sui personaggi del romanzo, tutti ben caratterizzati, nonostante il mistero che li circonda. Morgan è quello più sfuggente e in fondo è giusto che sia così.

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