Un “vecchio” Whitehead fra pandemia e profezia speranzosa

Un romanzo non per tutti, “Zona Uno” di Colson Whitehead, fresco del secondo Pulitzer in tre anni: un’umanità allo sbaraglio, e alcuni sopravvissuti che hanno «tutta l’intenzione di continuare la propria marcia attraverso il mondo morto»

Ho letto Zona Uno (312 pagine, 18 euro) di Colson Whitehead, pubblicato da Einaudi stile libero big, tradotto da Paola Brusasco. Metto subito le mani avanti anticipando che non lo consiglierò a tutti, ma proprio a tutti, contrariamente al mio inveterato costume. Essendo un romanzo “di genere” (horror- post apocalittico- fantascientifico) è, infatti, materia per gli appassionati in senso stretto della materia. Non me la sento di proporlo a chi cerca narrativa di tutt’altra specie e che dunque con ogni probabilità lo pianterebbe in asso anche a meno della metà. Personalmente l’ho molto apprezzato e non per l’ appartenenza alla categoria dei “lettori onnivori” che, come Caterpillar, macinano chilometri di parole per il puro gusto di sbriciolare sotto i propri cingoli anche i massi più ostici. Da sempre mi piacciono i romanzi fantascientifici-postapocalittici, quelli in cui si immagina un oltre, una dimensione diversa dell’essere umano, un assetto sociale, geografico ma anche solo urbanistico alternativo a quello conosciuto.

Molto più di un fantascientifico futuro

Traggo molta soddisfazione dalle storie in cui i protagonisti si “sperimentano” come esseri individuali e sociali in scenari inconsueti, mi incuriosiscono quelle in cui si fantastica circa le risorse e le reazioni che potrebbero essere improvvisate per una “rifondazione” palingenetica del mondo da un’umanità allo sbaraglio, devastata da conflitti o pandemie, attacchi alieni o cataclismi naturali. Se tuttavia a qualcuno, tra il manipolo sparuto di persone che si imbatterà in queste righe, dovesse mai venir la curiosità e il desiderio di acquistare il romanzo di Colson Whitehead (da poco vincitore del secondo Pulitzer in tre anni), sappia che si troverà di fronte a molto di più di una finestra aperta su un fantascientifico ignoto futuro. Quasi in dirittura d’arrivo, nelle ultime pagine cioè, è lo stesso autore a rivelarci il nodo della narrazione: «Kaitlyn raccontò la sua storia dell’Ultima Sera non per darsi a un ritualizzato compianto, ma per dire: questa è una storia di come stavano le cose prima». I sopravvissuti di Whitehead hanno «tutta l’intenzione di continuare la propria marcia attraverso il mondo morto» ma avendo sempre in mente il campionario umano che lo popolava, quel morto mondo: teste quadre che avevano speso la vita ad ostacolare e condannare gli altri, decerebrati vissuti al di sopra e al di fuori delle regole o infine individui spalmati in una media esistenziale comune, talenti così così che vivacchiavano.

Noi e i nostri costumi peggiori

Le pagine di Zona Uno costituiscono, in buona sostanza, un affresco dai toni straordinariamente realistici che immortala naturalmente noi tutti e nei nostri costumi peggiori. Quando, per spiegare il retroscena del nomignolo che gli è stato affibbiato, Mark Spitz, il protagonista del romanzo, tira fuori il vecchio luogo comune «che i neri non sanno nuotare», pare certo che gli stereotipi razziali, di genere e religiosi messi da parte dall’ “l’unico io” in cui si sono stretti i sopravvissuti, saranno riportati in vita, unitamente alle animosità, paure e invidie, una volta cessata l’emergenza in un futuro molto prossimo. Eppure la profezia di Whitehead è piena di speranza: «Non sapeva se il mondo fosse destinato alla condanna o alla salvezza, ma, quale che fosse la fase seguente, non sarebbe stata simile a quella venuta prima. […] Meglio lasciare che il vetro rotto rimanga rotto, lasciare che si frammenti in schegge e polvere, e si disperda. Lasciare che le crepe fra le cose si amplino fino a non essere più crepe, bensì spazi nuovi. Era lì che si trovavano in quel momento. Il mondo non stava finendo: era già finito e loro si trovavano nello spazio nuovo». Premessa visionaria appropriatissima al finale aperto del libro.

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