Assaf Inbari e i pionieri d’Israele coraggiosi e imperfetti

A partire dagli anni Trenta Afikim fu uno dei maggiori kibbutzim di Israele. Lì ha vissuto Assaf Inbari che in “Verso casa” ne racconta, in bilico fra dettagliata documentazione storica e forma romanzesca, la nascita, il successo e il declino. L’idea socialista e sionista di una comunità in cui regnassero uguaglianza, fatica condivisa e lavoro della terra non ha resistito agli anni Ottanta…

Un libro di storia? Un volume che racconta un tempo e uno spazio? Un romanzo che muove da elementi realissimi? Un pozzo della nostalgia? Senza star troppo a cercare una definizione che non troveremmo, c’è da restare impressionati per questo libro che finalmente da Israele giunge in Italia, oltre un decennio dopo la sua pubblicazione in lingua originale: Verso casa (300 pagine, 18 euro) di Assaf Inbari, pubblicato da Giuntina nella traduzione di Shulim Vogelmann e Rosanella Volponi. L’autore racconta, con uno sguardo che per larghi tratti sembra quello del realismo magico, del kibbutz Afikim (fondato negli anni Trenta), dove è nato nel 1968, epoca in cui questa e altre simili realtà, meravigliose ma forse ingenue, erano una colonna portante del tessuto culturale, sociale ed economico di Israele, l’unione virtuosa di sionismo e socialismo.

In fuga dalla Russia, fra utopia e realtà

Afikim fu fondato da giovani in fuga dalla Russia post-rivoluzionaria e divenne uno dei kibbutzim più grandi e di maggior successo, punto di riferimento dell’intero movimento. Assaf Inbari, soprattutto attraverso sette figure centrali (le loro lettere, i loro diari), sei uomini e una donna, occasioni speciali ed eventi festivi, ne racconta evoluzione, successi in campo economico e culturale, e poi declino: col passar dei decenni, si assiste allo smantellamento di un’idea, all’apertura nei confronti della religione, alla sparizione dell’uguaglianza assoluta che caratterizzava i rapporti fra ogni membro. Lo sguardo del narratore non è distaccato, ma nemmeno pienamente coinvolto, la voce che emerge cerca un sostanziale equilibrio, ma qualche volta sconfina nell’ironia. Racconta relativamente la vita quotidiana del kibbutz, si concentra sui passi lenti ma inesorabili che condussero alla fine, tra crisi degli ideali collettivi e conseguente prevalenza dell’individualismo, infelici investimenti finanziari e la decisione di consentire a chi faceva parte del kibbutz di possedere proprietà private. Inbari racconta di pionieri coraggiosi, grandissimi ma con i loro difetti, oscillanti tra utopia e realtà, e dei loro eredi, decisamente più imperfetti, probabilmente incapaci di seguire il solco tracciato e contemporaneamente lottare per l’indipendenza di Israele.

La religione laica, fra sconfitta e vittoria

Viene raccontato benissimo, in Verso casa, la religione laica del kibbutz, il senso di responsabilità di chi ne faceva parte, l’importanza della fatica condivisa e il valore del lavoro della terra, la sfida non solo al concetto di proprietà ma anche di famiglia. Un esperimento per molti versi fallito, un’epopea di molti sogni infranti e pochi realizzati. Quei figli di una diaspora giunti nella valle del Giordano, in un angolo di quello che sarebbe diventato lo Stato d’Israele, e le tre generazioni fotografate da Assaf Inbari meritano comunque rispetto e considerazione. Hanno dato vita a luoghi non solo geografici ma dell’anima, hanno coltivato parte della moderna identità ebraica; parlando diversi dialetti yiddish sono riusciti a trovare un cammino comune e a edificare alcune fondamenta di una casa. Poi, negli anni Ottanta, l’avvento di certo benessere, l’irrompere della parola manager, la seduzione di certo consumismo e l’approdo alla privatizzazione mettono tutti a dura prova, annacquano l’esperienza totale e totalizzante che avrebbe dovuto condurre all’ebreo nuovo. Forse è la storia di una sconfitta, ma i protagonisti sono a ogni modo vincitori.

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