Tra la boxe e gli scacchi, il tennis per DFW

Lo sport di Federer come trascendimento dell’io ne “Il tennis come esperienza religiosa”, libretto che raccoglie un reportage e un saggio di DFW, David Foster Wallace, e una postfazione di Luca Briasco. Spiccano le riflessioni sul genio svizzero, capace di travalicare la monotonia del gioco moderno

Qualche giornalista, prendendo brillantemente a prestito la struttura del celebre aforisma di Carl von Clausevitz, ha scritto che «Il tennis è il proseguimento della letteratura con altri mezzi» (Antonio Gnoli, Tennis e aborigeni. L’Australia di Clerici, “La Repubblica”, 13 febbraio 2012, e poi anche Daniele Bellasio, Dieci ragioni per dire che il tennis è letteratura, “Il Sole 24 ore”, 28 agosto 2012). Con spirito ironico, alcuni anni fa un certo Theodor Saretsky aveva basato tutto un libretto sul paradosso per cui il sesso sarebbe la «sublimazione del tennis» (Il sesso come sublimazione del tennis, ovvero I taccuini segreti di Freud scoperti e annotati da Theodor Saretsky, a c. di Ida Omboni, Mondadori, Milano 1988). Dobbiamo inoltre ad Alessandro Baricco questo squisito paradosso tratto dal suo articolo Essere Roger Federer, apparso su “Robinson”, n. 32, 9 luglio 2017: «Se è vero che tutti gli sport sono una metafora della vita, non è da escludere che la vita sia una metafora del tennis».

A David Foster Wallace si sarebbe potuta invece attribuire la considerazione de Il tennis come esperienza religiosa (96 pagine, 10 euro), titolo editoriale attribuito a una raccolta di due suoi saggi di soggetto tennistico più una postfazione. Trattasi di un libretto (tradotto da Giovanna Granato per Einaudi) che si legge tranquillamente in una serata, contenente: Democrazia e commercio agli US OpenFederer come esperienza religiosa; Solipsismo e trascendenza: il tennis come arte di Luca Briasco.

Una giornata agli Us Open

Quanto a Democrazia e commercio agli US Open, non è degno di alcuna attenzione per chi sia interessato esclusivamente al gioco dal punto di vista di uno scrittore di genio, dato che l’autore dal lungo nome e dalle lunghe note parla in questo reportage di tutto fuorché di tennis, ma si limita – per modo di dire – a fare la cronaca di tutto ciò che vede attorno a sé in una giornata agli US Open, NY, cui accede grazie a un prezioso pass da giornalista, mentre un sudatissimo Sampras è occupato a sconfiggere Philippoussis.

Momenti Federer e… religione

Di tutt’altro tenore il saggio Federer come esperienza religiosa. Qui DFW fa mirabilmente quanto segue:

1) descrive con rapimento alcuni scambi di un incontro Federer-Agassi agli US Open 2005 visto in TV (con una distinzione tra il vederlo sullo schermo, che è come vedere un porno, e dal vivo, che è come la realtà vissuta – osservazione che tornerà più avanti, rimodulata);

2) denomina le intuizioni geniali del giocatore svizzero “momenti Federer”;

3) si applica ad argomentare la seguente tesi, dimostratasi non pura retorica simil-giornalistica ma verificata “sul campo”, che DFW ruba al conducente di una navetta per la stampa: «se non avete mai visto [Federer] giocare dal vivo e poi lo fate, di persona, sulla sacra erba di Wimbledon, con una canicola che vi prosciuga […], siete tagliati per vivere […] una fottuta esperienza quasi religiosa»;

4) accenna ai due mondi contrapposti (nonché ai rispettivi tic e ad altri elementi di contorno) rappresentati da Federer e Nadal (nemesi dello svizzero), giocatori che DFW ha visto fronteggiarsi in finale a Wimbledon 2006, e descrive alcuni scambi fra i due, sottolineando come una conclusione di successo di Federer al termine di quattro o cinque colpi fosse implicita, contenuta e preparata con cura sin dall’inizio dei palleggi precedenti;

5) spiega la difficoltà del giocare a tennis, delle infinite variabili che ne determinano il gioco e come un preadolescente debba essere dotato di particolari doti, fra cui un posto di tutto rilievo ha uno spiccato senso cinestetico, per aspirare a diventare un giorno, se non proprio un Federer, almeno un professionista;

6) illustra le differenze tra il tennis delle racchette di legno e il tennis odierno, e come quest’ultimo sia più «atletismo e forza bruta» mentre l’altro era qualcosa di più raffinato e lento; come, pure, quello di oggigiorno sia essenzialmente un «gioco di potenza da fondocampo» basato sempre più (e Nadal è maestro in questo) sull’accelerazione prodotta alla pallina dalla tecnica del topspin (possibile solo con le racchette dai materiali più leggeri in uso dagli anni ’80 in poi, che hanno un piatto corde più ampio rispetto a quello delle racchette di legno, usando le quali era necessario colpire la pallina per forza nel centro del piatto corde stesso, e necessariamente di piatto, per non sbagliare).

7) afferma che seppure il tennis sia cambiato nel modo appena spiegato, Federer può essere considerato un genio del tennis proprio in quanto travalica la monotonia del gioco moderno esiliato a fondo campo, perché oltre a giocare in quel modo a meraviglia, padroneggia anche una varietà di soluzioni diverse: «Ci mette anche l’intelligenza, l’intuitività occulta, il senso del campo, la capacità di interpretare e manovrare gli avversari, di combinare effetto e velocità, di fuorviare e dissimulare, di usare fiuto tattico, la visione periferica e la portata cinestetica anziché soltanto la velocità meccanica».

Il tennis nell’opera di DFW

Solipsismo e trascendenza: il tennis come arte di Luca Briasco è infine una brevissima rassegna delle presenze del tema-tennis all’interno dell’opera di DFW. Di questo tratterrò con me alcune similitudini scrittura-tennis e metafore del gioco:

a) la citazione dal libro-intervista con Lipsky in cui DFW ricorda che il suo saggio migliore «parla tutto del tipo di mentalità necessaria per fare un discorso come: ‘Ok, devo assolutamente portare a casa questo punto. Quindi adesso mi concentro, ce la metto tutta e non mi faccio distrarre’» (Come diventare se stessi, p. 113);

b) il fascino geometrico e la difficoltà dello sport: «È come giocare a biliardo con palle che non ne vogliono sapere di stare ferme. È come giocare a scacchi correndo» (Tennis, tv, trigonometria, tornado, p. 12);

c) «è lo sport più bello che esista e anche il più impegnativo. Richiede controllo sul proprio corpo, coordinazione naturale, prontezza, assoluta velocità, resistenza e quello strano miscuglio di prudenza e abbandono che chiamiamo coraggio. Richiede anche intelligenza. Anche un singolo colpo in un dato scambio di un punto di un incontro professionistico è un incubo di variabili meccaniche» (ibid. pp. 350-1);

d) in Infinite Jest gli elementi che creano un corto circuito tra la visione del tennis e la riflessione dello scrittore sul proprio stesso percorso artistico sono la frammentazione e bellezza pura, l’infinità di possibili colpi e risposte, il calcolo e l’assolutezza del gesto estetico, l’immaginazione di sé stessi e dell’avversario. Cito la frase per me più più significativa nel lungo brano citato: «Schtitt sapeva […] che il vero tennis non era più riducibile a fattori delimitati o a curve di probabilità di quanto lo fossero gli scacchi o la boxe, i due giochi di cui è un ibrido» (p. 97).

e) ancora in Infinite Jest, la stupenda riflessione sulla solitudine del tennista e sulla lotta con sé stessi, per trascendersi: «La grande intuizione di Schtitt […]: Il vero avversario, la frontiera che include, è il giocatore stesso. C’è sempre e solo l’io là fuori, sul campo, da incontrare, combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dall’altro lato della rete: lui non è il nemico: è più il partner della danza. Lui è il pretesto o l’occasione per incontrare l’io. E tu sei la sua occasione. Le infinite radici della bellezza del tennis sono autocompetitive. Si compete con i propri limiti per trascendere l’io in immaginazione ed esecuzione. Scompari dentro il gioco: fai breccia nei tuoi limiti: trascendi: migliora: vinci. […] Si cerca di sconfiggere e trascendere quell’io limitato i cui limiti stessi rendono il gioco possibile. È tragico e triste e caotico e delizioso. E tutta la vita è così, come cittadini dello Stato umano: i limiti che ci animano sono dentro di noi, devono essere uccisi e compianti, all’infinito” (pp. 99-100; e sconfiggere i limiti sarebbe anche – annota Briasco – croce e delizia della scrittura di DFW).

Istanti sospesi di sofferenza e piacere

Il tennis: questo gioco ineffabile, soprattutto per i giocatori stessi, che a furia di ripetizioni giungono a compiere i movimenti quasi ciecamente (viene in mente l’iperbolico Carmelo Bene: «Edberg […], essendo il tennis, non può giocare al tennis e gioca addormentato, e infatti si addormenta come i cavalli, Stefan Edberg. È straordinario», in Fabrizio Ponzetta, Carmelo Bene al Costanzo Show: «Occhio zombie che stasera vi spacco il cervello», Jubal editore, n.l., 2005, p. 20), in virtù di una cinestesia pienamente interiorizzata e mettendo in opera automatismi fatti propri con anni e anni di esercizio… Uno sport che ci regala “istanti sospesi” in cui coincidono sofferenza e piacere, momenti totalizzanti in cui si viene soggiogati dalla sua bellezza, eppure così effimeri… A proposito, quale migliore paragone, di cui autore è il mitico McEnroe, se non quello «dei punti e dei game del tennis» visti (ecco un altro suggestivo trait-d’-union fra tennis e letteratura) come «poesie scritte sull’acqua» (Sul serio, p. 142)?

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