La rivoluzionaria di Abulhawa cerca radici e giustizia

Nahr, un’altra fortissima eroina nel nuovo romanzo di Susan Abulhawa, “Contro un mondo senza amore”. Per i palestinesi è una rivoluzionaria, per gli israeliani è una terrorista che deve scontare la sua pena all’interno del Cubo, cella di pochi metri quadri. Come nei suoi precedenti libri l’autrice denuncia l’arroganza degli occupanti israeliani che praticano impunemente ogni forma di abuso

A distanza di cinque anni da Nel blu tra il cielo e il mare e di dieci dall’ancora più famoso Ogni mattina a Jenin, Susan Abulhawa torna a raccontare la storia del suo Paese di origine, la Palestina, nel nuovo romanzo Contro un mondo senza amore (363 pagine, 18 euro), pubblicato in Italia dalla casa editrice Feltrinelli. Nahr, la protagonista, è detenuta nel Cubo: nove metri quadrati di cemento armato levigato, con sistemi di alternanza di luce e buio che nulla hanno a che vedere con il giorno e la notte. Per una parte del mondo è una terrorista e una puttana; per un’altra parte, invece, è una rivoluzionaria, un’eroina. Cresciuta in Kuwait, arriva in Palestina e lì trova amici, scopre l’amore e la passione politica, abbracciando la questione palestinese. Durante il tempo in cui sconta la pena detentiva, riceve la vista di molti giornalisti che vogliono conoscere la sua storia. Tornano tutti a mani vuote, perché all’interno di quel Cubo Nahr racconta la sua vita soltanto a Bilal, l’uomo dagli occhi scuri che le ha insegnato a resistere; l’uomo che non è lì, che forse non è più neanche vivo, ma che è la sua unica ragione per uscire da quell’inferno.

Adesso fisso le pagine bianche mentre penso a come raccontare la mia storia: tutto quello che confessai a Bilal e ciò che accadde dopo. Vorrei raccontarla come farebbe uno scrittore, suscitando emozioni, ma ricordo le emozioni solo a parole. La mia vita mi ritorna in mente attraverso le immagini, gli odori, i suoni, ma mai attraverso i sentimenti. Io non provo niente.

In prima persona

Si comprende bene perché la scelta della prima persona (è la protagonista che si assume l’onere di raccontare la storia) non è casuale: tale scelta narrativa ha il vantaggio di immergere totalmente il lettore nel racconto intenso e drammatico di Nahr, al punto da instaurare con lei una forte empatia. Vive la storia attraverso i suoi occhi e le sue sensazioni, attraverso una voce narrante poderosa che sa coinvolgerlo emotivamente, senza mai cedere alla noia. Una scelta, probabilmente, influenzata dal vissuto interiore dell’autrice che trasforma la narratrice nella protagonista in assoluto, con le sue azioni e la sua psiche che si disvelano pagina dopo pagina.

Esilio, memoria e identità

Ancora una volta Abulhawa sceglie di raccontare la storia del conflitto tra arabi e israeliani tratteggiando la personalità di protagoniste femminili in grado di caricarsi sulle spalle il peso della storia e dell’esilio (« Adesso so che spostarsi da un luogo all’altro è il destino di tutti gli esiliati. Qualunque sia il motivo, la terra sotto ai nostri piedi non è mai sicura»). Sono donne forti che non si arrendono alle ingiustizie e ai soprusi, non si piangono addosso, ma agiscono per cambiare le sorti di un intero popolo. In Ogni mattina a Jenin è Amal, erede di un grande patriarca, a raccontare la storia di una famiglia palestinese, attraverso diverse generazioni, fatta di abbandoni, violenza e morte che non è altro che la storia di un intero popolo perseguitato. Nahr, la donna dai tre nomi (Nahr, Yaqoot, Almas), urla il suo dolore – vero, straziant e- che, anche in questo caso, è di tutti i palestinesi. L’esilio, nelle parole che Abulhawa affida alle sue protagoniste, ha un rapporto stretto con la memoria e l’identità, un rapporto che muta da generazione in generazione: noi siamo anche memoria di chi ci ha preceduto, ma non sempre siamo in grado di seguire le tracce e le orme di quel sentiero che i nostri predecessori hanno segnato. La famiglia di Nahr è scappata in Kuwait durante la Diaspora del 1948: è questa la terra a cui è legata, al contrario della mamma e della nonna che vivono con profonda malinconia e nostalgia la lontananza dalla Palestina. Essere palestinese, però, vuol dire non avere uno Stato per colpa di uno sradicamento collettivo dalle proprie radici. L’essere esule dalla propria terra natia ha plasmato Nahr in un’esperta della vita, un’esistenza che ha attraversato diversi Paesi (Kuwait, Giordania, Palestina, Iraq), facendo crescere in lei il germoglio dell’alienazione, alla ricerca delle radici che a fatica trova in quella terra che l’ha rifiutata.

La Palestina non mi voleva e nemmeno io volevo lei. Ero di nuovo sradicata e vulnerabile, un’estranea in un posto che si era illusa fosse casa sua

Rivoluzionaria e straniera

Pian piano, però, riesce a mettere insieme i pezzi incongruenti del suo paese di origine per scoprire di essere una straniera anche lì. Non avere radici vuol dire barcamenarsi tra la libertà di essere ciò che si vuole e il dolore di non avere un’identità, di non sapere chi si è. In questo spazio sospeso, in questo limbo la parola “rivoluzionaria” assume un diverso significato.

Il modo in cui vivi la tua vita nella nostra cultura, senza scuse nè vergogna, seppur con un velo di tristezza, ti rende straordinaria e speciale, Nahr. Tu sei una rivoluzionaria, più di ognuno di noi, e la cosa curiosa è che non te ne rendi neanche conto

Nahr lo è perchè sceglie di vivere la sua vita fuori da ogni convenzione, lontana da quella mentalità patriarcale che opprime le donne, squarciando il velo dell’ipocrisia di una parte di mondo islamico in fatto di prostituzione. Non senza sacrifici, sofferenza e dolore, purtroppo. Abbraccia la resistenza, quella che è altrove è considerata terrorismo. Qui si annida l’annosa questione della distinzione tra resistenza palestinese e terrorismo ed è proprio nella figura di Nahr che l’autrice cerca di impersonare tale questione. Per i palestinesi è una rivoluzionaria, per gli israeliani è una terrorista che deve scontare la sua pena all’interno del Cubo. Nel solco dei suoi precedenti libri, Abulhawa denuncia l’arroganza degli occupanti israeliani che praticano impunemente ogni forma di abuso.

È davvero un mondo senza amore quello in cui è costretta a vivere e, contro questo mondo, Nahr si rifugia proprio nell’amore di Bilal che la salverà dall’inferno.

Ero amata con tutto il cuore. Allora e sempre, contro un mondo senza amore

A dimostrazione del fatto che tale sentimento, come il fuoco, può sciogliere le fibre più dure penetrando con la sua forza anche nei cuori più ostici.

Abulhawa ci regola una bellissima storia di resistenza che racchiude l’incessante bisogno di trovare il proprio posto nel mondo, di piantare radici e affidarsi all’identità di un popolo che cerca ancora giustizia. Soprattutto, una bellissima storia di amare che ci difende «contro un mondo senza amore».

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