Marinella Fiume: “Raccontare gli stupri in guerra per la pace”

Intervista a Marinella Fiume, autrice de “Le Ciociare di Capizzi”, sulle marocchinate subite dalle donne di Capizzi, piccolo centro isolano sui Nebrodi, durante la seconda guerra mondiale: “Vivere privatamente la scia di dolore per quella che si ritiene una ignominiosa macchia all’onore personale e familiare, non consente al dolore privato di diventare collettivo. La consapevolezza è necessaria alla riconciliazione e alla costruzione della pace”

I collegamenti con il celebre film di Vittorio De Sica e il romanzo di Alberto Moravia sono immediati quando si parla delle ‘Ciociare’, meno frequenti se non addirittura improbabili invece, sono quelli con le donne di Capizzi, vissute durante gli anni in cui l’Italia era sotto l’assedio fascista. Tuttavia, secondo la studiosa Marinella Fiume, impegnata da sempre a scoprire storie nascoste di questa terra a Sud, la connessione  sarebbe una pagina di storia buia e ancora troppo, poco nota. “Le Ciociare di Capizzi” così ribattezzate  dalla scrittrice catanese nel suo ultimo, omonimo lavoro letterario, in uscita nelle prossime settimane per Iacobelli editore, sono le donne delle campagne siciliane, vittime di “marocchinate”: «Donne vittime degli stupri e delle violenze di guerra perpetrati dai Goumiers – ci dice la Fiume, durante la nostra intervista. – In Sicilia con esso si indicano gli stupri e le violenze compiuti dagli stessi in alcuni Comuni nel corso della loro avanzata in occasione dell’operazione Husky». Le testimonianze raccolte sul campo da Marinella Fiume, impaginano i fogli di un capitolo nero e sottaciuto della storia siciliana durante l’operazione Husky condotta dagli Alleati, contro il regime nazi-fascista. La caduta di Mussolini segna profondamente l’Isola e la liberazione dalla dittatura passa attraverso un girone infernale, non senza peccato. I capitini (cittadini di Capizzi) che sperano nell’opera di liberazione angloamericana, si ritrovano invece assaliti dalla loro violenza tribale; quasi fossero lupi travestiti da pecora, usurpano la terra e chi la abita come ricompensa alle loro fatiche, come cifra simbolica di appartenenza al branco. Nel libro della Fiume, un interessante approfondimento è riservato alla guida di Jim Taylor Soldier’s guide to Sicily distribuita ai soldati alla vigilia della guerra. Nei quaderni, la cui prefazione riporta la firma del generale Dwight D. Eisenhower, comandante in capo di tutta l’operazione americana, si delinea un quadro stereotipato  del siciliano dell’epoca, descritto come arretrato, geloso, privo di igiene, selvaggio. L’intento è quello di permettere ai soldati di conoscere in anticipo la gente e la cultura del popolo che si dovrà liberare e, date le premesse, anche civilizzare: addomesticare  i selvaggi. Per farlo sono quindi  necessarie forze armate all’altezza, ergo: «selvaggi per selvaggi (…) i marocchini avrebbero trovato qui pane per i loro denti».

A pagare il prezzo di tali violenze sono le donne: madri, mogli, figlie considerate bottino di guerra, proprio come succede nello storico ratto delle Sabine. La guerra incoraggia il femminicidio, moltiplica le malattie veneree, gli aborti clandestini e i “bordelli di guerra”, ma oltre alle violenze anche il peso della vergogna. Come raccontano le testimonianze nel libro infatti, molte donne sono costrette a emigrare in ‘Ammerica’ per il disonore di quei soprusi; altre  a crescere figli non desiderati; alcune obbligate all’esorcismo del silenzio e alla contrizione lontane dalla vita sociale; qualcuna invece sarà semplicemente diventata pazza (‘nfuddìu). In virtù di una mentalità patriarcale e maschilista del tempo, avvalorata dalle leggi del codice Rocco che mistificano la violenza per lavare il disonore subito, padri, mariti e fratelli per riscattarsi da quell’offesa applicano la legge del taglione, e solo col sangue quel torto subito, come un “flagello biblico, si considera riparato. Una difesa morale che ha, della tragedia greca, la giusta “punizione alla hybris”, esattamente come scrive la Fiume, nel libro. In ogni caso la vergogna diventava una spada di Damocle o una lettera scarlatta indissolubile per la famiglia che la subisce.

Le ciociare di Capizzi condensa la memoria locale in un libro di ricostruzione attraverso le testimonianze di chi ha vissuto quel periodo o a cui è stato raccontato in forma di narrazione fantastica, ricordo doloroso o leggenda. Scritto con la collaborazione di alcune socie della associazione Fidapa di Capizzi, Maria Pia Fontana, Melinda Calandra Checco e Giuseppe Vivaldi Mamone, la scrittrice Marinella Fiume ci restituisce una cronaca complessa delle vicende nere di quel tempo, approfondendo la documentazione degli avvenimenti storici, mitologici e testimonianze dirette.

Marinella Fiume, “Marocchinate” è un termine diventato di uso comune tuttavia non tutti conoscevano l’etimologia e la storia di questo termine infatti la ricerca nel libro è definita inedita. Come mai questo vuoto storico?

«Il termine “marocchinate” è un neologismo ormai entrato nel linguaggio comune con il quale si intendono gli efferati e diffusi episodi di violenza e principalmente gli stupri sulle popolazioni civili commessi dalle truppe di Goumiers – dalla traslitterazione fonetica francese del termine arabo “qum”, banda, squadrone – nordafricani, dalla Sicilia fino alla Toscana passando per il Napoletano, nel corso della seconda guerra mondiale. Ma, mentre nell’Italia centro-meridionale questo termine è un participio passato passivo con il quale vengono indicate le donne vittime degli stupri e delle violenze di guerra perpetrati dai Goumiers, in Sicilia con esso si indicano gli stupri e le violenze compiuti dagli stessi in alcuni Comuni nel corso della loro avanzata in occasione dell’operazione Husky. Il corpo di spedizione francese era composto da circa 110 mila unità per lo più marocchini, algerini, tunisini e senegalesi, ma sulla stessa composizione etnica, la confusione delle popolazioni interessate era tale che la madre di Rosetta, interpretata da una magistrale Sofia Loren nel film La ciociara di Vittorio De Sica che le valse l’Oscar, chiama i violentatori “turchi”, secondo un antico retaggio delle storiche scorribande ad opera dei cosiddetti Saraceni, mentre in Sicilia, in molti racconti delle vittime, sono definiti “nìuri” (neri) tutti, anche i Marocchini. Questa storia che raccontiamo in questo libro potrebbe sembrare già nota grazie al celebre film di Vittorio De Sica (1960) tratto dall’altrettanto celebre romanzo di Alberto Moravia La Ciociara del 1957, ma in realtà su questa ignominiosa tragedia c’è ancora molto da dire. E specialmente per quanto riguarda la Sicilia, dove il fenomeno è stato pochissimo indagato. Per le regioni centro meridionali, invece, la verità era nota già a partire dalle denunce fatte da tante donne, contadine e montanare che hanno rivendicato il giusto riconoscimento di vittime e un risarcimento, almeno da quando la prima formale protesta italiana fu inoltrata dai vertici della Polizia alla Commissione Militare Alleata sin dai primi mesi del 1944 per segnalare la frequenza delle violenze sessuali da parte delle truppe alleate. Poi, il 7 aprile 1952, nella seduta notturna della Camera dei Deputati, i tragici avvenimenti furono denunciati da Maria Maddalena Rossi deputata del Partito Comunista Italiano e presidente dell’Unione Donne Italiane, al fine almeno di cercare di ricompensare, per quanto possibile, le vittime, chiedendo una legge speciale e adeguati vitalizi. E questo non senza battaglie e frustrazioni, in assenza di grande solidarietà dei parlamentari democristiani e in generale di sesso maschile, e mentre anche dopo certa storiografia “politicamente corretta” attuava una sorta di colpevole rimozione su quelle vicende che sembravano così inabissarsi».

Come ti sei mossa e quali documenti hai utilizzato per ricomporre i frammenti di questa vicenda?

«Ho seguito il metodo che mi è consono, quello della storia orale e della ricerca sul campo; ho cercato la collaborazione e l’aiuto delle donne, in particolare delle socie FIDAPA,  guidate dalla loro presidente Melinda Calandra, e dei volontari di Capizzi perché le interviste che io ho coordinato non fossero condotte da elementi ritenuti estranei alla comunità. Ha collaborato al lavoro anche un appassionato di storia militare, conoscitore del teatro di guerra, Giuseppe Vivaldi. La lentezza, il rispetto dei tempi della memoria, l’anonimato, la cautela, l’empatèia verso le vittime e i discendenti familiari è stata la caratteristica dell’approccio alle dolorose storie di vita narrate. Non mi interessavano i documenti, bensì il rapporto della comunità con la sua memoria e il recupero del rimosso al fine di una reale conciliazione col proprio doloroso vissuto».

Un crimine dimenticato o insabbiato?

«Non si dimenticano mai eventi di questo genere, neanche a distanza di 75 anni. È un vulnus inflitto alla comunità al di là della persistenza in vita delle vittime. Quella non fu una guerra come le altre, la storia della comunità ne fu travolta dalle fondamenta, fu una guerra totale dalle responsabilità molteplici, un conflitto epocale tra civiltà quello che si svolse in un fazzoletto di terra sui Nebrodi abitato da pastori, allevatori e contadini. Insabbiato, certo, per volontà di tutti, anche delle vittime. Molte donne emigrarono, molte si suicidarono, molte preferirono sopportare i malanni conseguenti allo stupro e curarsi in casa come potevano per pudore, per evitare di allargare la cerchia di chi sapeva e ufficializzare il loro stato. Però non ci furono denunce, a quanto le nostre testimonianze ci dicono, nessuno ha parlato e si è convissuto per lunghi anni con questo tremendo “segreto”, spesso per altro ben noto all’interno della famiglia e in tutto il paese, ma di cui non si doveva fare parola: un tabù, insomma, dato che lo stupro era vissuto come un’offesa all’integrità dell’onore personale e familiare. L’angoscia andava smaltita in silenzio, in un sentimento tra umiliazione e condanna, che è stato definito “vergogna alla rovescia”, ossia un ribaltamento dell’ignominia dal persecutore alla vittima. Eppure non v’era chi non sapesse e il nome del paese è tra quelli ricordati nella bibliografia sulle “marocchinate” per essere stati teatro di questa barbarie, pur senza un’indagine documentaria specifica. Ma non fu solo per questo probabilmente che non se ne parlò più né ci furono denunce. Bensì anche per la risposta dei capitini che, lasciati soli, opposero strenua resistenza ai ‘Marocchini’ reagendo in modo violento in una guerriglia che li vide contrapposti su una medesima tattica. Fu uno scontro sanguinario anche se qui, come nel resto dell’Isola, non si verificò tutto quello che sarebbe accaduto qualche mese dopo in mezza Italia. Non in quelle dimensioni a causa della breve durata della loro permanenza nel luogo».

Chi sono le siciliane vittime delle marocchinate?

«Erano praticamente le nostre nonne. Donne giovani e meno giovani, nubili o sposate, mogli e madri lavoratrici che si sottoponevano al lavoro massacrante dei campi spesso da sole in assenza dei maschi validi che erano al fronte e insieme a quello domestico, non meno massacrante, donne che la comunità riconosceva costituire elemento essenziale della economia agro-pastorale di questa società. Lavorando sui campi all’aria aperta tra l’altro era difficile per loro nascondersi: si trattava di scegliere tra la fame e i pericoli della guerra».

Un fattore che viene sottolineato nel libro è quello del silenzio. C’è ancora omertà su questo argomento? 

«“Cu parra assai s’affùca” (Chi parla assai si soffoca) è un proverbio che ci ha riferito un anziano del luogo intervistato. La consegna del silenzio, l’omertà sappiamo che appartiene tradizionalmente al codice d’onore di Cosa Nostra, ma l’onore afferisce ad una sfera valoriale più ampia fondata sul Patriarcato e condivisa da tutta la comunità degli anziani, che ha il fulcro sul corpo della donna in quanto figlia, sorella, moglie e madre. E tuttavia abbiamo avvertito nei più il desiderio lungamente represso di aprirsi, raccontando magari come accaduti ad altri episodi dolorosi della propria famiglia. Abbiamo compreso e non abbiamo fatto forzature. Abbiamo instaurato un rapporto fiduciario, si è capito fin da subito che non cercavamo lo scandalo. Le ferite inflitte nel corpo delle donne producono gravi lacerazioni nelle vittime così come nel corpo sociale e queste ferite sono destinate ad attraversare le generazioni. Per esorcizzare quella che fu avvertita come un’Apocalisse si scelse il silenzio anche perché la lingua non sarebbe stata forse capace di ridire l’atrocità del male. Insieme abbiamo cercato le parole per la narrazione, abbiamo compiuto uno sforzo comune per riciclare il dolore e farne lievito di consapevolezza, giustizia e rinascita individuale e sociale. Anche le Istituzioni laiche e religiose ci sono state vicine nel nostro lavoro».

Pensi che la cultura siciliana sia maggiormente denigratoria, rispetto ad altre, nei confronti delle donne? 

«Penso che sia esattamente il contrario. Queste vicende che raccontiamo sfatano tanti stereotipi e luoghi comuni. La vendetta dell’orgoglioso capitino lasciato solo a difendersi lavò l’onore, le donne stuprate non furono ripudiate e le nubili si sposarono quasi tutte. Il capofamiglia accolse anche qualche figlio frutto dello stupro. Gli antropologi, forti di uno standardizzato “concetto d’onore”, non se lo sarebbero aspettato forse un simile comportamento dal maschio siculo, dal montanaro pastore e allevatore con la “còppula” e il bastone nodoso, che in questa storia ci fa certamente miglior figura degli emancipati francesi, inglesi e americani».

La missione di liberazione diventa per la terra e le donne che la abitano una operazione di depravazione e depredazione. Agire esattamente come il nemico che si sta combattendo. Mi chiedo: come si distingue a questo punto il liberatore dall’oppressore? 

«Gli  Alleati anglo-americani si servirono  delle truppe coloniali francesi di marocchini e nordafricani per l’avanzata sui Nebrodi e l’entrata a Capizzi perché, “selvaggi” com’erano, avrebbero trovato ad accoglierli montanari non meno rudi. D’altra parte, nel loro zaino, i soldati americani, durante lo sbarco in Sicilia, avevano anche una piccola guida distribuita alla vigilia della partenza a ciascuno di loro, che li informava sul territorio e le caratteristiche delle popolazioni con le quali sarebbero venuti a contatto. Un piccolo quaderno, intitolato Soldier’s guide to Sicily, assemblato da Jim Taylor, giunto in Italia dopo avere preso parte alla campagna che lo aveva portato a combattere nel deserto del Nord Africa. È un documento assai interessante per capire cosa gli Anglo-Americani, che non conoscevano l’Isola, si aspettassero di trovarvi e come si rapportassero con il nostro popolo. La prefazione era del generale americano Dwight D. Eisenhower, comandante in capo di tutta l’operazione e conteneva una sorta di incoraggiamento: “Il compito è difficile – scriveva – ma il vostro valore, il vostro coraggio e la vostra dedizione al dovere avranno successo”. Vi si descriveva quindi l’arretratezza dei siciliani, il loro carattere, la loro gelosia, secondo noti stereotipi, la mancanza di servizi igienici e si raccomandavano le norme cui attenersi per evitare malattie; si diceva che “l’Isola ha una storia lunga e infelice, che l’ha lasciata in una condizione primitiva e di sottosviluppo, con molte vestigia e rovine di un passato ricco di civiltà” e ancora che “invasori e dominatori che si sono succeduti in tutte le epoche, hanno oppresso la popolazione”. Sicché Andrea Camilleri, che ha prefato la ristampa per la Sellerio in occasione dei settant’anni dell’operazione Husky, a buon diritto afferma trattarsi di “una raccolta esemplare di stereotipi, luoghi comuni, conoscenze superficiali, omissioni vistose” e conclude:  “Io credo che sia assai utile, perché nella Guida, in filigrana, si può scorgere la malcelata valutazione, orgogliosa e colonialistica, che gli alti comandi alleati davano del loro compito. Che non era solo ed esclusivamente quello di combattere il nazifascismo ma anche di portare la loro idea di civiltà nei territori liberati, generalmente e genericamente considerati in stato di grande arretratezza. Ma Guerra e Civiltà sono parole di segno opposto. Metterle allora sullo stesso piano fu un errore soprattutto politico, errore dal quale pare che gli USA non si siano mai voluti emendare”. Ebbene, selvaggi per selvaggi, fu l’elementare ragionamento dei Capitini, i Marocchini avrebbero trovato qui pane per i loro denti. E lo trovarono! La risposta dei Capitini lasciati soli, fu una strenua resistenza ai Marocchini, una reazione violenta in una guerriglia che li vide contrapposti su una medesima tattica. E certo fu anche per questo che non ci furono denunce».

Flagello biblico e violenza per vendetta. Religione e violenza come può esserci questa correlazione? 

«Quello che si svolse in questo territorio fu uno scontro che, malgrado la relativa angustia del teatro, appare in un certo senso “epocale”, un unicum in questa guerra, uno scontro sottovalutato non tra fronti nemici in una stessa guerra, né in una guerra civile, ma tra due differenti universi, due “civiltà” contrapposte, in cui ognuno reagiva forte dei “valori” della propria civiltà che si difendevano strenuamente, entrambi volutamente lasciati soli da chi dall’alto assisteva colpevole e complice alla carneficina. Stuprare le donne simbolicamente vuol dire marcare il territorio dell’avanzata militare attraverso lo spargimento del seme dei soldati nella popolazione femminile, anche in virtù dell’identificazione della mascolinità con le politiche espansionistiche. Da un lato la Terra straniera assalita, depredata, presa, addomesticata e simbolicamente fecondata attraverso gli stupri dai gruppi berberi di civiltà pre-islamica dei Goum, il corpo femminile metafora della risorsa da penetrare, da espugnare. Dall’altro la Terra originaria, Sposa e Madre propria e dei propri figli, lavorata, custodita e trasmessa, posta sotto la protezione di un Santo matamoros campione della Cristianità: San Giacomo, patrono di Capizzi. Un conflitto simbolico giocato sul binomio Terra-Donna, un conflitto tra la loro cultura e la cultura locale, all’interno della stessa guerra che impaurisce e incattivisce tutti».

Quale è il valore simbolico di ciò che racconti e quale la dimensione di comprensione che vuoi restituire a chi legge?

«La violenza sessuale sulle donne è un crimine di guerra e una grave violazione dei diritti umani che non ha fine. Di questi giorni è la polemica sul “matrimonio” del giovane Montanelli con l’adolescente abissina durante la campagna d’Africa. Interessante è a questo proposito leggere le pagine del libro dedicate da Maria Pia Fontana alle cause e agli effetti delle battaglie sul corpo delle donne. Intanto abbiamo voluto cercare di comprendere questa atroce tragedia moderna tutta femminile, lo stupro come arma di guerra e il suo significato simbolico, il corpo delle donne come terreno di scontro tra una comunità di pastori-allevatori e i Goumiers. Perché ricordare significa conoscere e capire e questa è una storia che si è ripetuta e si ripete in ogni secolo e in ogni angolo del mondo. Restiamo convinti che raccontare i propri conflitti, in una parola il racconto autobiografico, sia uno strumento prezioso, una testimonianza in grado di fare chiarezza in relazione alla situazione che si è vissuta fino a riconciliarsi con essa consegnandola alla storia, alla memoria della comunità, alle giovani generazioni. Nel silenzio della storia scritta, nell’opacità spessa della memoria, nella sua rimozione, le stesse comunità locali non sono state quasi mai in grado di costruire un ragionamento pubblico su quelle vicende, rimaste presenti soltanto nel ricordo delle vittime e dei testimoni o familiari e mai metabolizzate. E però riteniamo che vivere privatamente la scia di dolore per quella che si ritiene una ignominiosa macchia all’onore personale e familiare, celarsi alla comunità, tacere o mistificare per esorcizzare non consenta al dolore privato di diventare collettivo, riconoscendo attraverso la condivisione la sorte comune ai più, né rende un servizio alla verità, né permette di far germinare nella propria coscienza quella consapevolezza che è necessaria alla riconciliazione e alla costruzione della pace».

Cosa si può fare per includere questo capitolo di storia nella Storia ufficiale? 

«Non tacerlo ma parlarne, includerlo nei libri di storia, senza strumentalizzare ma anche senza tema di demistificare miti, cercando di entrare dentro le sue ragioni più profonde onde uscire dalla generica condanna della violenza della guerra e della storia che rischia di produrre solamente una retorica le cui lacrime vengono facilmente scrollate fino alla prossima guerra. Sebbene gli stupri rappresentino un’aberrazione ricorrente dei conflitti armati, sia nel tempo che nello spazio, non possono dirsi in assoluto connaturati ad ogni guerra. Ciò vuol dire che lo stupro di guerra va letto alla luce delle pratiche culturali di un popolo, come anche delle strategie militari concretamente perseguite. Esiste un continuum tra la violenza sessuale subita dalle donne in guerra e quella subita durante i periodi di pace a causa dell’atavica subordinazione della donna alla cultura patriarcale dominante, centrata sulla minorità femminile e sulla sperequazione nelle possibilità sociali di riconoscimento e di realizzazione personale tra i generi, per cui si assiste ad un costante reiterarsi della violenza in quanto non si rimuovono le sue cause sottese. Rimuovere le diseguaglianze di genere significa anche combattere contro la persistente cultura dello stupro. “Educare al giusto ricordo – scrive Maria Pia Fontana in una pagina di questo libro – è premessa indispensabile per la formazione delle coscienze e per la costruzione di sani modelli di condotta e di relazione”».

2 pensieri su “Marinella Fiume: “Raccontare gli stupri in guerra per la pace”

  1. Caterina Luisa De Caro dice:

    Molto interessante. Restituisce dignità a donne da sempre abituate al silenzio delle loro grida lacerante. Bellissima intervista.soprattutto il bisogno di togliere il velo alla Storia, documentando e rispettando i fatti per quello che sono , senza propagande ed ideologie.

  2. Caterina dice:

    La lunga e circostanziata intervista fa intravvedere grandi spazi di riflessione e la rielaborazione di singole storie privare e lungamente taciute aiutano a ricostruire la storia con la S maiuscola.Dopo la lettura dell’intervista ,aumenta il mio interesse per la lettura completa del libro.

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