Secondo libro di Costanza Diquattro, dopo il memoir “La mia casa di Montalbano” e primo romanzo (entrambi sono editi da Baldini + Castoldi), “Donnafugata” (208 pagine, 16 euro) è la saga di un casato, in un luogo, a due passi da Ragusa, e in un tempo preciso, il diciannovesimo secolo. Protagonista il barone Corrado Arezzo, che vive e invecchia «circondato dalle fimmini», il ritratto intimo di un illuminato uomo pubblico. “Donnafugata” di Costanza Diquattro (qui un suo video di consigli di lettura per il nostro canale Youtube) sarà in tutte le librerie a partire da domani 10 settembre. Per gentile concessione dell’editore anticipiamo un capitolo, il diciannovesimo.
Palazzo Donnafugata, 19 maggio 1891
«Oscenza, buongiorno», disse Tano il giardiniere, «avete visto che spettacolo?»
Corrado lo guardò con una smorfia che sembrava un sorriso, piegò la testa un paio di volte e cominciò a camminare tra i vialetti di bosso del giardino all’italiana. All’interno di ogni aiuola la natura, sapientemente curata da Tano, stava dando spettacolo.
Il giardino di Palazzo Donnafugata era un immenso e variopinto roseto.
Le rose erano state una passione di Vincenzina, la madre di Corrado, ma anche di Concetta, sua moglie, di sua figlia e infine anche di Maria.
Tutte le sue donne ne erano state completamente rapite, vedevano in quel fiore etereo ed effimero l’inconsistenza della vita, la fuggevolezza delle cose, la precarietà dell’esistenza.
«Che ci trovi di tanto bello?» aveva chiesto Corrado un giorno a sua moglie.
«Tutto», aveva risposto lei annusandole. «Sembrano eterne quando sono appena fiorite, come la giovinezza. Poi basta una notte, la distrazione di un attimo e la loro bellezza si piega alla vita, per poi morire dopo poche ore. Eppure hanno una solida base, crescono sulle spine, si difendono come possono. Ma per quanto? Per cosa ci affastelliamo l’animo e i pensieri se in fondo non siamo altro che rose, istanti bellissimi da ricordare come questo profumo.»
Gli aveva avvicinato un petalo sotto il naso, lui ne aveva distrattamente percepito la fragranza e si era subito allontanato.
«Sciocchezze da donne», aveva risposto cinico. «Le rose rispecchiano una delle tante bellezze di cui è piena la natura. La similitudine con la vita mi pare forzata e svenevolmente romantica, mia cara. Grazie a Dio noi viviamo più di una notte e molto più di un esplosivo maggio.»
Le aveva baciato la fronte e si era allontanato.
«Quanti anni avete, Tano?»
«Trentasette a febbraio prossimo, Oscenza.»
«Siete giovane. Non ricordo più da quanto tempo lavorate qui…»
«Oscenza non lo ricordate perché ci lavoro da sempre.» Tano si era levato i guanti e aveva posato le talee che aveva in mano. «Io ci nascii dentro questo giardino. Mio padre, Giorgio, ve lo ricordate?»
Corrado annuì.
«Ecco, mio padre Giorgio era il giardiniere di vostra madre e per tanto tempo anche della baronessa vostra moglie.»
«E Giorgio come sta?» domandò Corrado mentre accarezzava un bocciolo non ancora fiorito.
«Oscenza chi vuliti ca vi ricu… nun arragghiuna! Ogni tanto parla con vostro padre, ogni tanto litiga con la buonanima di mia madre, mischina che è più di vent’anni che è nel mondo della verità. Altre volte pare tornato picciriddu, fa cose di picciriddu e a me si stringe il cuore a vederlo così.»
«Mi dispiace», rispose Corrado rapito da quei colori così intensi. «Salutatemelo.»
Maggio rumoreggiava di cinguettii d’amore. Il verde intenso degli alberi e delle siepi esaltava le svariate tonalità di quella prepotente natura. Il bianco, il giallo, il rosso e tutte le gradazioni del rosa si offrivano alla vista come una procace offerta. Corrado si sentì confuso e stordito da quell’odore. Si vide bambino sulle ginocchia di sua madre e poi giovane marito, in un letto caldo che profumava di maggio. Si vide padre, con un fascio di rose per lenire il dolore, e nonno per strappare un sorriso e scovare lo stupore dietro lo sbocciare di quel fiore.
Ripercorse la sua vita immergendosi nella nuvola di un profumo tanto conosciuto e troppo spesso dimenticato.
Cominciò a camminare, le mani dietro la schiena, l’andatura lenta e claudicante.
«Tano, che varietà è questa?»
Il giardiniere, che nel frattempo aveva lasciato il barone da solo in quella insolita e solitaria passeggiata, si precipitò da lui.
«Oscenza questa è la rosa centifolia, è una varietà molto antica ed è profumatissima. Bisogna trattarla con delicatezza, è piena di spine. Però ha questo colore ca fa sbaniri u suonno.»
Tano si era illuminato per quella breve descrizione e Corrado aveva intravisto nel suo sguardo la lucentezza della passione.
«Non ho mai saputo quante varietà si coltivassero in questo giardino. È stato sempre un compito di mia moglie.» Gli occhi cerulei di Corrado si persero qualche secondo nel vuoto, non videro rose, verde e primavera, ma solo un imperturbabile niente. Poi rinvenne, di colpo.
«Fammi fare un giro, voglio saperne di più.»
Tano si sentì investito di un grande onore, posò la zappa e seguì Corrado. Rimase un passo indietro rispondendo sapientemente a ogni domanda.
Raccontò che all’interno di quel giardino vi erano più di trenta varietà di rose, molte delle quali erano state scelte da sua madre. Poi si fermò davanti a una aiuola, la più grande e disse: «E qui ci sono le rose di vostra moglie».
Corrado si illuminò.
«Le ha volute lei. Sono una varietà siciliana. Hanno questo rosso intenso e sono carnose. E resistono…»
«Resistono?» domandò Corrado stupito.
«Resistono eccome. Certo, Oscenza, resistono per quanto può resistere una rosa. Però alla baronessa queste piacciono tanto perché, dice sempre lei, la speranza di trovarle il giorno dopo le mette allegria.»
«Dice così?» rintuzzò Corrado.
«Esattamente queste parole, Oscenza», rispose Tano.
«Puoi raccogliermene un cesto?» chiese Corrado poggiandogli una mano sulla spalla.
«Subito, Oscenza.»
Corrado si sedette sulla panchina di pietra. Davanti ai suoi occhi, oltre la sagoma dei palazzi, si ergeva la navata centrale di San Giorgio e alle sue spalle la cupola dai vetri blu svettava avvolta in un manto indaco. Si sentì pervadere da una incontrollabile tristezza. Tutto ciò che aveva intorno era così dissonante con la sua anima, così distante dal suo umore. Persino quel cinguettio gli parve sbagliato, a tratti fastidioso. Vide in cielo delle sottili pennellate di viola e si destò dai suoi pensieri, sfuggendo al tramonto.
Tano gli consegnò quel cesto che sembrava creato dagli angeli e non da un semplice giardiniere.
Corrado lo ringraziò e ritornò dentro casa.
Nulla commuove più, alle volte, di una immagine stridente.
Vedere un uomo appesantito dagli anni, stanco e claudicante, percorrere la lunga infilata di salotti con un cesto di rose rosse in mano avrebbe persino potuto far sorridere eppure quella immagine, tanto vera quanto goffa, non era altro che una carezza.
Corrado bussò appoggiando le nocche alla porta. Aprì la stanza quasi buia.
Vannina si alzò, lasciando libera la sedia accanto al letto.
«Ha mangiato?» domandò Corrado sottovoce.
«Picca e nenti, Oscenza», rispose Vannina con gli occhi lucidi.
«E il dottore è venuto?»
«Oscenza sì. Disse che ci dobbiamo affidare a nostro Signore», facendosi il segno della croce.
«Facciamo così. Stanotte resto io.»
«Ma Oscenza, voi siete stanco…» provò a ribattere Vannina.
«Chiudi la porta. Non voglio che nessuno ci disturbi. Se ho bisogno vi chiamo io.»
Corrado accompagnò Vannina, chiuse la porta e si avvicinò al letto.
Concetta sembrava dormire. L’età l’aveva resa diversa, ma Corrado riuscì a scorgere in quel viso sofferente le fattezze di una antica bellezza.
Si sedette accanto a lei.
«Ti ho portato una cosa. Forse ti sembrerò strano, non ci ho mai fatto caso, eppure da oggi piacciono anche a me.»
Concetta aprì gli occhi con fatica e prima che potesse richiuderli lui le alzò il cesto a portata di sguardo.
Lei fece una smorfia. Sembrò dolore ma Corrado volle illudersi che fosse un sorriso.
«So tutto. Come si chiamano, da dove vengono. Questo ragazzo, il figlio di Giorgio, mi sembra un ottimo conoscitore. Scommetto che lo avrai istruito tu. Mi ha detto lui che queste sono le tue preferite…»
Si alzò, poggiò sul comò il cesto pieno di rose e fece il giro del letto. Si sedette, si tolse le scarpe e si distese sul fianco destro. A distanza di moltissimi anni, e con una collezione sulle spalle di gioie e dolori, si trovarono nella stessa posizione. Lei in camicia da notte, con i capelli sciolti e l’animo in subbuglio. Lui vestito di tutto punto, con le sue grandi mani intorno alla vita di lei, timoroso di farle male. Entrambi sul fianco destro a fissare il nulla mentre quel nulla si fa verità nelle parole.
«Non devi restare. Non per forza se non ti va. La vita ci ha già chiesto tanto, più di quello che avremmo potuto darle. Ti ho visto spegnerti, giorno dopo giorno. Ho visto sfiorire i tuoi sorrisi, ti ho vista pregare distrattamente, parlare distrattamente, vivere distrattamente. Nessuno merita di vivere distrattamente, sai? Me lo hai detto quel giorno, quando il feretro percorreva la navata centrale e io non volevo crederti eppure tu sapevi che sarebbe andata così. Mi hai preso la mano e hai sussurrato “Da oggi aspetterò solo di morire”. Non ne abbiamo più parlato e me ne pento. Se forse ti avessi chiesto di vivere e di lasciare che la morte arrivasse da sola, senza che tu la aspettassi, forse sarebbe andata diversamente. Invece ho avuto paura di sentire la tua verità e di piegarmi anch’io all’inevitabile tentazione di sedermi ad aspettare. Adesso però non posso portarti indietro, sei più lontana del mio braccio e non posso afferrarti. Avevi ragione tu. Non siamo altro che rose. Duriamo il tempo di un sorriso, di un ricordo da custodire, di una notte da ricordare. E quando ci voltiamo indietro di noi resta solo la scia debole di un profumo che è stato intenso. Però volevo dirti che mi mancherai. Abbiamo camminato bene insieme noi due. Io con i miei viaggi, con le mie delusioni e i miei entusiasmi, con la politica e l’arte, con la rabbia e l’incoerenza. E tu, con le tue preghiere e le tue rose, i tuoi “sì” accomodanti, le tue lacrime sempre pronte a sgorgare. E adesso, anche se non parli più, lo so cosa stai per dirmi: “Fammi andare via serena…” Stai tranquilla. Ho chiesto a Clementina di tornare. Vorrei tanto che riuscisse a vederti e che tu riuscissi a vedere la nostra rinnovata serenità.»
Corrado si alzò un poco facendo leva sul gomito e si sporse su di lei. Le baciò la fronte. «Adesso riposiamoci un po’. Siamo vecchi per parlare a quest’ora. La notte è di quei giovani belli come le rose che stanno per sbocciare.» Appoggiò la mano su quella di Concetta e si addormentò.
Fu un sonno senza sogni, profondo e sospeso, greve e leggero.
Parve una vita ma durò poche ore.
E quando in piena notte Corrado si svegliò spalancando gli occhi all’improvviso, non ebbe paura. La sua mano stringeva una mano fredda, il suo braccio cingeva un corpo rigido. Si alzò lentamente, accese il lume e le guardò il viso. La smorfia di dolore adesso si era distesa. Le rughe di quella età sbagliata si erano fatte sottili, la sofferenza non c’era più.
Andò verso il cesto, prese un rosa e gliela appoggiò accanto.
«Ho ancora qualcosa da fare, ma non così tanto da non poterti raggiungere presto.»
Si chinò, le sfiorò con le labbra la fronte di marmo, le segnò una croce con il pollice e uscì.
Dietro la porta, su una sedia, rannicchiato su se stesso stava Micheluzzo.
«Preparami il vestito nero e tante rose rosse. Solo rose rosse.»
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