Il Singer di Solstad, enigma per sé stesso e per gli altri

“T. Singer”, pubblicato in Norvegia nel 1999, ultimo romanzo nelle intenzioni dell’autore Dag Solstad; così non è stato, ma tale volontà è esemplificativa dell’importanza del testo, che potrebbe essere considerato il punto d’arrivo della sua produzione esistenzialista.

T. Singer, protagonista dell’omonimo romanzo (256 pagine, 16.50 euro) di Dag Solstad, tradotto da Maria Valeria D’Avino per Iperborea, è afflitto, fin dalla giovane età, da un senso di vergogna ben radicato, che non lo limita nella vita quotidiana ma che emerge in alcune situazioni predisponenti, costringendolo ad azioni innaturali. Lo zio lo aveva visto da piccolo mentre, con una risata forzata e artificiosa, aveva cercato di compiacere un amico: il fatto di essere stato scoperto – quasi denudato – in quella simulazione da qualcuno che lo conosceva bene diventa una macchia della vergogna, un peccato originale di pirandelliana memoria di cui non riesce più a liberarsi e che riaffiora con prepotenza in alcuni episodi della vita.

Il non senso nascosto in un’esistenza qualunque

«Un giorno si trovò faccia a faccia con una visione memorabile»: quale visione? Che cosa renderebbe memorabile tale visione? Memorabile per chi? I sogni del giovane Singer iniziano e finiscono con una frase che sembra geniale, così perfettamente compiuta da non poter essere modificata né trasformata in un romanzo e che denota un’irresolutezza nel portare avanti le scelte esistenziali.

A trentuno anni Singer mette nel cassetto l’ambizione di diventare scrittore senza averla veramente perseguita, decide di abbandonare gli studi universitari e di lasciare i lavoretti saltuari per un progetto di vita più concreto, per scrollarsi di dosso l’etichetta di perdigiorno che ha guadagnato agli occhi propri e altrui.

Dopo aver vinto un concorso per diventare bibliotecario, sale su un treno diretto verso il paese sperduto di Notodden, nella regione montuosa del Telemark, intenzionato ad avere una vita ordinaria e ordinata, da piccolo borghese, e a ricercare un equilibrio dato dalla ripetizione di semplici azioni.

Consapevolmente sereno nelle proprie debolezze e nei propri limiti, vive nel completo anonimato dove può rapportarsi al meglio con le persone, venendo anche apprezzato per l’onestà e la semplicità con cui si presenta a esse.

Svolge con impegno la sua attività lavorativa nella quale riesce anche a distinguersi – i frequentatori della biblioteca chiedono spesso di lui -, partecipa con cordialità a ogni occasione d’incontro con colleghi e amici, si costruisce rituali come quello di andare da solo al ristorante e al cinema.

All’improvviso, la casualità della vita

Proprio in una di queste uscite solitarie, Singer trova l’amore nella ceramista Merete Sæthre, con la quale inaspettatamente va a convivere da subito, si sposa e ne adotta la figlia Isabella come se fosse sua.

La presenza di una donna lo trasforma, poco alla volta, in una versione abbellita di sé: Singer prende la patente e inizia a lavare, a stirare, a cucinare, il tutto per andare incontro alle richieste della moglie.

Cittadino e marito modello, Singer ha ormai tutto ciò che è richiesto per essere accettato dagli altri: ha un lavoro, una casa, una moglie, una figlia acquisita, un’automobile e una vita sociale.

Si mostra divertente e gentile con tutti perché è opportuno, così vogliono le convenzioni; non è mai stato sfiorato dall’idea che la sua vita potesse essere diversa da quella in cui è stato trasportato dal destino e forse proprio per questo sente che non gli appartiene fino in fondo.

L’inevitabile solitudine dell’uomo moderno

Nonostante i compromessi accettati per compiacere la moglie, Singer resta sempre inaccessibile a lei: più che un tipo riflessivo, si potrebbe definirlo un rimuginatore cronico; per Merete non è semplice stare a fianco di un uomo come lui, perso nel suo mondo. Nel rapporto subentrano quindi la noia e l’insofferenza, con il sospetto che quei panni vestiti per amore non gli appartengano veramente, che sia tutto un grande imbroglio.

Ancora una volta ci penserà il caso a prendere decisioni al posto di Singer (non si prosegue oltre nelle anticipazioni per non rovinarne la lettura di questo romanzo di Solstad).

Singer pare non essere mai veramente in sé, sembra vivere in una sorta di imitazione di esistenza, la sua è una presenza solo di facciata in cui ogni gesto, ogni sorriso, perfino ogni pensiero è calcolato per adeguarsi alla necessità di passare inosservato, come se non ci fosse spazio per esercitare la libertà personale.

Ogni passo porta in sé il germe di un momento increscioso, invaso da un senso di vergogna che rimarrà indelebile nella coscienza. Una persona come Singer è in pericolo ovunque vada, e deve stare continuamente all’erta. Uno sguardo, un’occhiata stupita, un’espressione inquisitoria, un cosiddetto commento bastano a provocare la sua totale dissoluzione interiore. Una persona così non userebbe tutto il suo istinto per evitare che episodi del genere accadano, e non solo per evitare l’episodio in sé, ma anche la possibilità che un episodio del genere accada? La solitudine di un uomo che deve stare sempre in guardia contro un umiliante senso di vergogna provocato da incidenti banali, come nel caso di Singer, dev’essere sostanziale. Profonda. Non si può cercare conforto negli altri. Nel modo più assoluto.

L’immagine di copertina – un’illustrazione di Peter Mendelsund – mostra il busto di un uomo senza testa, senza identità, mosso da una chiave di carica, come se fosse un burattino.

La letteratura moderna è costellata di uomini senza qualità, che a una certa età si rendono conto di non aver fatto nulla di buono con quello che è presentato come il dono della vita: sono proprio questi uomini medi i soggetti più adatti a illustrare tutto il nonsenso dell’esistenza.

Un personaggio banale come Singer è il personaggio perfetto per essere il protagonista di un romanzo contemporaneo proprio perché privo di ogni aspirazione e illusione, rassegnato a vedere la realtà per quello che è: un vano tentativo di contatto con altri esseri umani.

La cupa ironia norvegese di Solstad alleggerisce il tema della solitudine dell’uomo contemporaneo, che vede il corso della vita come l’unica possibilità che sarebbe potuta essere, dove il libero arbitrio è mera utopia.

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