Andò: “Il mio racconto morale tra solitudini e salvezza”

Intervista al regista e scrittore Roberto Andò, protagonista della rubrica online “Libri vs Covid” sulla pagina Instagram di Interno 95. Il suo romanzo “Il bambino nascosto” diventerà un film. “Narro – chiarisce Andò – il dialogo tra due persone che devono ripartire da zero, la chiamata emotiva di un anziano e solitario insegnante di musica, il training emotivo di un bambino, il loro avvicinarsi fino a compiere gesti da genitore e figlio…”

Si intitola Il bambino nascosto (224 pagine, 17 euro), l’ultimo romanzo di Roberto Andò, edito da La nave di Teseo. Del libro abbiamo parlato con Andò, regista oltre che scrittore, nel corso della rubrica online “Libri vs Covid”, che curo sulla pagina Instagram della libreria Interno 95. Ecco la versione integrale dell’intervista.

Roberto, come nasce la storia che narri in questo tuo ultimo libro?

«Il libro nasce dall’incontro di due solitudini che abitano lo stesso condominio, in quella che è una situazione tipica del Sud e soprattutto di città-arcipelago come Napoli e Palermo, con una struttura dove possono convivere a pochi passi il sublime e l’orrido. Nel nostro caso, come dicevo, il condominio si trova ad essere il punto di incontro di due esistenze che forse non si sarebbero mai incontrate perché avrebbero convissuto lì senza mai sapere l’una dell’altra. E dunque, i protagonisti sono Ciro, un bambino di dieci anni, in fuga dalla famiglia, e un professore di pianoforte, Gabriele Santoro».

Chi è Gabriele Santoro, il protagonista del tuo racconto?

«È un uomo che si è ritirato dal mondo, e che intrattiene un colloquio intimo solo con se stesso. Vive a Forcella da straniero, è un borghese che subito dopo aver conseguito il diploma al Conservatorio ha deciso di trasferirsi proprio là; una scelta eccentrica per allontanarsi dalle proprie origini. Gabriele Santoro, ormai sessantenne, vive una vita regolare, senza emozioni né imprevisti e l’arrivo di questo bambino rappresenta per lui l’irruzione in un mondo che l’insegnante non ha voluto fino a quel momento vedere».

Perché, cosa avverte dagli sguardi e dalle poche parole di Ciro?

«Avverte che Ciro gli sta sottoponendo una richiesta di aiuto e, avendo capito che il bambino è terrorizzato, d’istinto decide di accoglierlo. Non opta, dunque, per la scelta apparentemente più razionale di riportarlo a casa o di avvertire la polizia, perché, nonostante il bambino non spieghi nulla, capisce che dietro c’è un retroscena drammatico».

Per dirla tutta, capisce che c’è una chiamata proprio per lui…

«Proprio così. Gabriele capisce che c’è una chiamata emotiva, anche per lui, alla quale non può che corrispondere e, quindi, comincia questa avventura che avrà delle conseguenze notevoli nella sua vita. Pian piano, muovendosi come un rabdomante nel suo quartiere, capisce che questo bambino ha fatto uno “sgarro”, scippando la madre di un boss della camorra e lei stessa titolare di questa carica; il bambino intuisce che è addirittura probabile che il padre accetti di consegnarlo ai boss e, grazie all’intuito, capisce che il professore lo aiuterà. Eppure i due non si sono mai parlati, l’insegnante, ovviamente, non appartiene a nessuna delle frequentazioni del padre di Ciro, non appartiene al suo mondo. Da parte sua, il professor Santoro è un uomo che nel corso degli anni si è isolato sempre di più, non ha impegni con nessuno, vive solo per la musica. Piano piano, dapprima con una forma di sospetto, perchè il bambino non parla, e poi grazie ad una sempre maggiore condivisione empatica, la sua missione diventa quella di aiutare Ciro».

La storia ha al suo centro il conflitto, interiore, con la famiglia, tra il bene e il male…

«Sì, basti pensare a quello tra Gabriele Santoro e il fratello Renato, magistrato, con il quale il professore si scontra, anche duramente, e per tante ragioni. Ma forse quello più drammatico è il conflitto che vive il piccolo Ciro, il quale alla sua tenera età (dieci anni appena) intravede come probabile la cosa più innaturale del mondo e cioè che il padre possa consegnarlo ai propri carnefici; il bambino è allora costretto a fuggire perché sa che la famiglia, intesa in quella perversa relazione con il crimine, in qualche modo non è neanche padrona di se stessa e potrebbe cedere».

Eppure, questo conflitto fa da abbrivio ad un percorso di salvezza…

«Sì, se da un lato il conflitto caratterizza in modo importante la storia, dall’altro fa il paio con il tema “del salvarsi”: Ciro e Gabriele sono, infatti, due persone che per ragioni diverse individuano l’una nell’altra, una possibile salvezza. L’anziano insegnante è un uomo che è sfuggito alla vita, l’ha lasciata in sordina, e si è chiuso nel suo universo fatto solo di musica e, allora, quando il bambino si nasconde a casa sua sente che entrano in gioco degli elementi molto forti, che danno senso alla sua vita e a me interessava molto dare spazio al dialogo tra due persone che devono ripartire da zero, che è poi un aspetto che forse ricorre nelle storie che racconto, al cinema o in letteratura. Ciro è, infatti, un bambino che deve cominciare un training emotivo completamente diverso dall’alfabeto sentimentale che gli ha consegnato la sua famiglia, votato sin da piccolo alla criminalità; ma anche Gabriele deve farlo, e per questo abbandonano pian piano il sospetto per riavvicinarsi in un modo quasi magnetico, fino a compiere, davvero, i gesti tipici di genitori e figli».

Tutto questo diventa, poi, molto più chiaro quando Gabriele trova a casa sua i disegni del piccolo Ciro, con la pecora elegante e il lupo spelacchiato…

«È questo il momento in cui Gabriele Santoro si ritrova ospite per la prima volta del suo appartamento; lui, persona molto ordinata, trova sparse per terra le carte di questo bambino, e da quei disegni comincia a pensare che non sia un caso che si siano incontrati, perché sono proprio quei disegni che consentono a Gabriele di accedere al mondo di Ciro. Non dimentichiamoci che Ciro è prima di tutto un bambino, e può certamente pensare di ricominciare tutto daccapo. Allora, è qui che i due protagonisti si consegnano a vicenda la cifra della propria anima e questi disegni giocano questo ruolo, sono un chiavistello per penetrare i pensieri segreti del bambino; è chiaro che l’immagine del lupo e della pecora che tu ricordi richiama anch’essa il tema di questo racconto che è un racconto morale: il bambino sta sfuggendo al lupo e Santoro lo sta aiutando per non consegnarsi alla belva alla quale sarebbe predestinato».

A proposito di libri, nel romanzo aleggia il fantasma di Kostantinos Kavafis. Perché lo hai scelto?

«Perché ha lasciato un corpus poetico straordinario, riconosciuto da altri grandi poeti come Pasolini e Brodski. Kavafis è uno scrittore che racconta una sensualità portata all’estremo, con una grandissima capacità di dare al verso la misura del tempo, come se fosse l’oscillazione di un pendolo; ogni voce a cui lui da spazio è come se fosse misurata all’interno di un pendolo, che è un pendolo interiore e il romanzo che ha la stessa cadenza».

E poi ci sono i Doors con Waiting for the sun

«Ho pensato di inserire questo brano del 1970 dei Doors quando Santoro, ormai in fuga, capisce che la tenaglia del crimine si sta inesorabilmente stringendo attorno a lui; in macchina, da solo, accende la radio ed ascolta questa canzone che mi sembrava molto congeniale per quel punto di fuga che il brano stabilisce con un  orizzonte che non è nella realtà, qui è come se lui intravedesse un altrove che sì prefigura, da un lato come quello che gli sta per succedere e dall’altro come accesso alla possibilità di una vita nuova».

Perché hai ambientato questa storia a Napoli e non a Palermo?

«Perché anche io volevo sentirmi straniero in questa città; avrei potuto benissimo ambientare il racconto in Sicilia e in altri posti della nostra regione che conosco meglio e avrebbe funzionato lo stesso perché ci sono dei precedenti. Ho già ricordato, infatti, che negli anni ’80 accadde un fatto simile al quale mi sono ispirato, con una banda di bambini che scippò la madre di Nitto Santapaola; i bambini furono prelevati la notte stessa per essere poi sciolti nell’acido e le famiglie non fecero nulla. Quella era Catania, ma io ho scelto Napoli, per sentirmi libero di reinventarne gli scenari, e per ribadire che contrariamente a quanto ipotizzato da qualcuno, anche lì la criminalità organizzata non ha presunte regole o forme di cautela. Insomma, ho pensato che fosse una storia che poteva funzionare meglio lì. Napoli è una città che amo, anche attraverso i libri degli scrittori che ne hanno scritto, come Anna Maria Ortese che nel romanzo cito esplicitamente».

Napoli d’accordo, ma nella storia c’è anche Palermo, con i suoi cani…

In questa piccola divagazione faccio ricordare al pianista una sua visita a Palermo per soffermarmi su un aspetto che mi ha sempre affascinato, il fatto che Palermo sia da sempre una capitale dei cani. Sì, a Palermo si incontrano molti cani, e a volte queste creature sembrano avere una tipica cadenza umana; ricordo un allievo del Centro sperimentale, che tempo fa realizzò un film sui cani di Palermo, in parte suggerito da me; ricordo che in quel film emergeva lo sguardo dei cani verso noi umani, come se in qualche modo ci tenessero d’occhio. A Napoli questa presenza non l’ho mai notata, mentre a Palermo il cane è veramente un re. Gabriele Santoro riconosce in questi cani che vede una sorta di fratellanza e pensa che se si dovesse reincarnare probabilmente sceglierebbe un cane, uno di quelli che si allungano all’ombra nelle torride giornate estive.

Naturalmente non posso farmi sfuggire l’occasione di chiederti se su questa storia vedremo un tuo film…

Sì, il film si farà ed il protagonista sarà Silvio Orlando. Avremmo dovuto cominciare a girare in aprile, ma poi la pandemia ha interrotto la preparazione. Se tutto va come deve andare sarà pronto nella prossima stagione. (L’intervista è stata pubblicata in versione parziale sul mensile I love Sicilia)

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