Inseguendo un sogno: La Capria, Fenoglio, Fitzgerald

La realtà e il tempo non sono sufficienti. Resta la tentazione del sogno, del tentativo di cristallizzare un momento. Ecco un breve percorso di idealizzazione attraverso libri come “Ferito a morte” di Raffaele La Capria, “Una questione privata” di Beppe Fenoglio e “Il grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald

Se c’è una cosa che ci angoscia, in quanto esseri umani, è il passare del tempo. Non possiamo controllarlo, né trattenerlo in alcun modo: semplicemente, scivola via. È una verità a cui l’uomo non riesce ad arrendersi, e l’arte, insieme a mille altre cose, nasce probabilmente (anche) da qui: dallo sforzo di costruire un mythos imperituro del proprio vissuto; dal disperato e testardo tentativo di cristallizzare un momento – quel momento.

Perché sei rimasto, che cosa ancora ti trattiene? E potevo dirgli la cosa assurda? Potevo dirgli: ritrovare uno solo di quei giorni intatto com’era, ritrovarlo, per caso, una mattina uscendo con la barca?

La Capria e un filo difficile da acciuffare

Quando Raffaele La Capria scrisse Ferito a morte, l’intento era tutto qui: raccontare di un tempo che passa, di un tempo confuso; di un prima e di un dopo, dopo il quale niente è stato più come lo si conosceva; di chi è andato via – da Napoli, dal passato – e di chi è rimasto, come un custode fedele di una reliquia ormai distrutta. La scrittura, non a caso, si organizza in queste pagine come un flusso di coscienza disordinato, che ci avvolge – o forse sarebbe meglio dire: ci travolge – sin dalle prime, fulminanti, righe. È complesso acciuffare, leggendo questo libro, un filo che sappia condurci con sicurezza nella complicata trama di eventi che si sommano, l’uno sull’altro, in una mimesis del corso dell’esistenza. E difatti la storia si sottrae, di continuo, a qualsiasi tentativo netto di comprensione – proprio come fa la spigola che inaugura il racconto.

La spigola, quell’ombra grigia profilata nell’azzurro, avanza verso di lui e pare immobile, sospesa, come un reattore quando lo vedi sbucare ancora silenzioso nel cerchio tranquillo del mattino. L’occhio fisso, di celluloide, il rilievo delle squame, la testa corrucciata di una maschera cinese – è vicina, vicinissima, a tiro. La Grande Occasione

 

La spigola sguscia, come il tempo che passa: si sottrae, di continuo, esattamente nel momento in cui, ingenuamente, si crede di essere sul punto di afferrarla. Eppure la voce narrante si ostina, continua a inseguirla, affannata, instancabile, finendo per vorticare attorno a un nucleo indicibile ma fondamentale: quello che ha segnato il punto di non ritorno, quell’attimo in cui il sogno si è infranto. Ferito a morte, infatti, è un libro sulla perdita del mito, dell’oggetto idealizzato, del passato che ci ha dato forma. È un libro in cui si corre dietro a Carla, a una notte giovane in cui ci si poteva sentire vivi, al senso dell’amore e della realizzazione personale. È un libro di ritorni, ossessivi, su quello che c’è stato e su quello che si ha ora; e se c’è una cosa che si profila chiaramente, alla fine della lettura, è proprio la consapevolezza che qualcosa è andato inesorabilmente perduto. È una verità spiazzante e crudele, che taglia come una lama affilata: e ferisce a morte, appunto, perché determina, inderogabilmente, un’amputazione: l’abbandono definitivo dell’unica cosa che, almeno per un momento, ha potuto dare un senso al tutto.

E addio allora, dal momento che sai, addio al bell’oggi di prima che t’avvolgeva come l’acqua il pesce che nuota, le cose mute per te, mutate per sempre da quel momento, per sempre, e inutile è ostinarsi, mai più, mai più uno di quei giorni di prima, uno solo, ritroverai per caso una mattina. Tieniti quello che ti spetta, ad ognuno il suo, solo il modo è diverso, danne un mistero se vuoi ma non un dramma, vivi se ti va, e se ti va di lasciarti morire, lasciati morire.

Fenoglio e il tassello mancante

Questo senso, che in Ferito a morte si perde, è lo stesso che viene ricercato ossessivamente da Milton, nel romanzo che ha reso famoso Beppe Fenoglio. Una questione privata, infatti, è un libro in cui si dà forma alla ricerca affannosa della verità, del tassello mancante, della causa che rende il tutto completo e afferrabile. E non a caso la trama si riduce a poche, brevissime righe: un uomo, innamorato, scopre di essere stato “tradito” dalla donna che ha corteggiato per mesi e dal ragazzo che credeva suo amico. Si mette quindi a cercarlo: per sapere, per guardarlo negli occhi, forse per vendicarsi – certamente non per lasciare andare. Da qui si costruisce un romanzo che, non a torto, Calvino ha definito ariostesco: un labirinto di specchi, di inseguimenti, di oggetti del desiderio che si sottraggono continuamente. Milton corre, su per i monti, da un gruppo partigiano all’altro; si arrovella, torna indietro nel tempo, ripercorre le visite a Fulvia, i segni del suo amore; si intestardisce sui dettagli, sperando di scovare quello che avrebbe potuto far intuire che l’agguato si stava consumando, proprio alle sue spalle. E nel farlo rivela tutto il senso del suo amore, della sua idealizzazione: continua a costruire il mito della donna che ama, che progressivamente acquisisce la dimensione del sacro, del tempio da custodire, della mediazione per l’ineffabile. Fulvia è un simbolo, prima ancora che una donna: è il verbo, il riempimento delle lacune, l’elemento che fa accedere ad uno stato di grazia. E non a caso, Milton porta il nome di uno dei poeti della letteratura inglese che ha fatto dell’epica il suo marchio: lo scrittore del Paradiso perduto (e che cos’è, Fulvia, se non l’eden sottratto?) e de I nemici di Sansone (il racconto di un martire, che muore sacrificandosi all’ideale). Milton è, quindi, un uomo di mito: un uomo di idealizzazioni, di sogni, di tensioni insolute. E la sua ricerca – che è forse il simbolo di tutta la nostra ricerca, quella umana, verso il senso che sfugge – non può che concludersi con una protensione, nel tentativo, fatale, di afferrare quello che si è sempre inseguito e che, solo apparentemente, sembra essere ormai a portata di mano.

Senza Fulvia non sarebbe estate per lui, sarebbe stato l’unico al mondo a sentir freddo in quella piena estate. Se però Fulvia era ad aspettarlo sulla riva di quell’oceano burrascoso attraversato a nuoto… Doveva assolutamente sapere, doveva assolutamente, domani, rompere quel salvadanaio ed estrarne la moneta per l’acquisto del libro della verità.

Fitgerald e il passato da recuperare

Straordinariamente è proprio così che immaginiamo anche Gatsby, il protagonista dell’omonimo romanzo di Francis Scott Fitzgerald, che chiude questo breve percorso sull’idealizzazione. La protensione – verso qualcosa che sta per arrivare, verso la promessa che il sogno si realizzerà – è il suo modus vivendi: la sua mano è alzata, stesa verso la luce verde all’orizzonte, verso il «futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi». Gatsby insegue un sogno, con fiducia incrollabile: un sogno che negli anni Venti non poteva che prendere la forma dell’American Dream. E questa promessa, sopra ad ogni altra cosa, si cristallizza in un nome: quello di Daisy – che in inglese significa “margherita”: il simbolo di una purezza incontaminata. Daisy è giovane, bella, ricca, delicata: è la magia di una notte sotto le stelle, in cui si poteva pensare – anche solo per un attimo – di essere diventati simili a dio, mentre le lingue si intrecciavano. È la chiave d’accesso ad uno stato di grazia, un simbolo di sacralità (della sua voce si dice: «era una canzone immortale»). E di conseguenza, tutto ciò che si inframmezza, tra lei e Gatsby, ha il marchio scottante della profanazione.

«Parlò davvero molto del passato e io conclusi che volesse ritrovare qualcosa, forse una qualche opinione che aveva di sé e che era andata perduta nell’innamoramento per Daisy. La sua vita era stata confusa e disordinata da allora, ma se fosse riuscito a tornare per una volta a un determinato punto di partenza e ripetere tutto, passo per passo, avrebbe potuto scoprire cos’era che…»

 

Gatsby è rimasto bloccato nel passato, deve recuperarlo: ci prova, fino alla fine, ossessionandosi, aggrappandosi a una speranza che si disgrega sotto ai suoi occhi: «Non si può rivivere il passato? Caspita se si può!». Ma il passato è perduto, proprio come lo era anche per Milton e per Massimo. Eppure, Gatsby ha provato a trattenerlo, l’ha mitizzato, l’ha reso un fondamento della propria identità: perderlo, ormai, significa perdersi. Non a caso, allora, la conclusione di questo romanzo ha il senso di un sacrificio inevitabile: Jay diventa vittima di sé stesso, del sogno a cui si era votato. E assurge, al tempo stesso, a eroe simbolo della tensione umana all’idealizzazione: un eroe ostinato, capace di coltivarla fino in fondo, con un atteggiamento che è anch’esso, in un qualche modo, portatore di una purezza incontaminata che noi non possiamo più permetterci:

E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter più sfuggire. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in quella vasta oscurità dietro la città dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia… e una bella mattina… Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato.

 

La Capria, Fenoglio, Fitzgerald, rivelano ostentatamente qualcosa che noi tutti sappiamo: la realtà che abbiamo, il tempo che ci è stato concesso, non sono sufficienti. Non resta, quindi, che votarsi alla tentazione del sogno, dell’idea; alla lettera che va oltre il tempo e lo spazio. C’è il rischio di rimanerne vittime, certo: ma è un rischio che corriamo continuamente, stregati dalla possibilità di toccare – anche solo per un momento – il compimento. E allora, forse, ci sarebbe da chiedersi se non leggiamo e scriviamo proprio per questo: per avere accesso a uno stato di grazia.

Un pensiero su “Inseguendo un sogno: La Capria, Fenoglio, Fitzgerald

  1. Ada Euugeenia Trigila dice:

    Reby è s9empre un piacere leggerti. E mi commuovi perché sai darmi, di romanzi che conosco bene, le vivide pennellate giovanili che avevo dimenticato. Ed è bellissimo ritrovare, tramite parole nuove, le tue, autori che non hai mai dimenticato, ma che hai solo lasciato riposare nella mente, coprendoli con il velo dell’età …perché la polvere dell’oblio non li ricoprisse. Grazie, Rebecca, per questi doni!
    Ada

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