Le radici eritree, Longhi tra razzismo coloniale e identità negate

“Il colore del nome” di Vittorio Longhi è libro biografico, storico, introspettivo e investigativo, una cruda denuncia di molteplici indegni comportamenti sociali e istituzionali. L’autore va a ritroso nella propria storia familiare, tra antenati italo-eritrei, nefandezze del regime fascista in Africa e la costruzione della propria stessa identità culturale, morale e lavorativa

 

Europa e Africa. Nel 2012 Vittorio Longhi (Catania, 30 marzo 1972) faceva il giornalista a Bruxelles, 40enne direttore del sito d’informazione Equal Times. All’aeroporto di Amman, il 5 settembre, mentre si accinge a tornare a casa dopo aver visitato il campo profughi di Zaatari, nel nord della Giordania e al confine con la Siria, apre finalmente il messaggio arrivatogli qualche ora prima da Aida, che si presenta come una cugina eritrea, insegnante in Svezia: «ti ho cercato perché penso che tu sia il figlio di mio zio Pietro… Mesi fa lui è partito per l’Eritrea…Da qualche settimana non abbiamo più sue notizie però. Temiamo che abbia avuto problemi con il regime. Se sei tu la persona che cerco e se hai informazioni, ti prego di farmi sapere qualcosa».

Un figlio, un padre, gli avi

Solo che Vittorio non vede Pietro da 18 anni: si erano salutati alla stazione di Milano, Vittorio era poi rientrato nelle Marche dalla madre Loretta Muzi, definitivamente deluso e disinteressato per le sorti di Pietro, che lo aveva abbandonato piccolissimo: quando aveva tre anni fece perdere ogni traccia. Tre giorni insieme dopo venti anni di vuoto gli erano bastati. Fino a quel messaggio non aveva mai voluto davvero ricostruire le lontane origini eritree di un ramo dei progenitori. Dopo aver continuato per qualche tempo a prescinderne, coincidenze, vicende professionali, rovelli identitari, foto e altri sporadici contatti lo inducono a ritrovare le tracce del giovane sottoufficiale piemontese Giacomo Longhi (1864), giunto ad Asmara nel 1890 con l’ambiziosa fallimentare conquista monarchica di una colonia in Africa, lì legatosi a Gabrù Adahana (1874); poi del loro primo figlio “meticcio” Vittorio Longhi (17 settembre 1896 – 20 luglio 1950), a sua volta sposatosi con Maria Naumo nel 1921, un italoeritreo capace e di successo, rovinato dalle assurde feroci nefandezze del regime fascista in quell’area, ucciso a pochi metri dal cancello di casa, vicino al nero sedicenne Pietro, lasciando miseri e invisi tre femmine e quattro maschi, meticci, con caratteri somatici e sfumature della pelle che sconfessavano il cognome bianco.

Vita, ricerca, denuncia

Ne Il colore del nome (280 pagine, 17,50 euro), edito da Solferino, il giornalista Vittorio Longhi mostra ottime doti di narratore lungo e ci intrattiene intelligentemente attraverso una splendida sanguinante vicenda no fiction e fiction, in parte biografica, storica, introspettiva e investigativa, insieme pure un avvincente romanzo di vari meticci generi letterari e una cruda denuncia di molteplici indegni comportamenti sociali e istituzionali. La sceneggiatura mescola tre piani temporali: la vicenda dell’originaria maschia famiglia italiana e l’incontro con le donne eritree lungo un paio di generazioni meticce; la propria esistenza dalla nascita con i genitori in Sicilia, alla quasi immediata ennesima fuga triste e assurda di Pietro (già segretamente marito e padre molto tempo prima), alle coraggiose scelte di Loretta che gli garantiscono affetto, benessere e l’identità del cognome paterno; la costruzione della propria stessa identità culturale, morale e lavorativa, in particolare con le attività professionali fra il 2012 e il 2014 a Bruxelles, fino al fatidico delicato viaggio verso l’altra africana metà dei suoi colori, odori, umori, sapori e immaginari. Sono convinto che da decine di millenni siamo tutti afrodiscendenti e che da millenni sia l’intera nostra specie a essere meticcia, biologicamente e culturalmente. Purtuttavia, nel corso dell’esistenza di una singola persona, si verificano specifiche ulteriori materiali mescolanze, di geni e colori, di culture e sopraffazioni. Così, la concreta vita di popoli e comunità ha indotto da oltre cinque secoli a questa parte la tentazione di nominare e raggruppare (e spesso discriminare) come colorati o “meticci” gli arrivi di bimbi e bimbe dalla riproduzione (più o meno consensuale) fra umani di differente colore della pelle (da cui il titolo del libro).

Il grazie alla madre, la dedica alle donne

Longhi ricostruisce molti aspetti anche giuridici della questione, nell’Italia coloniale e poi fascista, ma anche nell’Italia e nell’Eritrea di oggi, sempre irrisolti, con un utile parallelo con l’americana one drop rule. La narrazione è in prima al presente per il 2012-2014, in prima e terza al passato per i secoli e decenni precedenti. Usa la terza anche su sé stesso infante e adolescente, l’attenzione grata si rivolge alla biografia della madre, del resto la dedica è “per le donne che oltrepassano i confini. Del nome, del colore, del tempo”. Potendo, Vittorio porta Rosso Conero alle cene a casa d’amici. Non ci resta che riassaggiare e provare a fare del buon ziginì.

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