Alteamaria, balla con il cuore! E con il cuore scrivi…

Un articolo, una lettera, un libro ricevuto. E una sorprendente conferma che sfocia in una domanda: cosa spinge un’anima – anche quella della giovanissima Alteamaria Paola Cuozzo, autrice de “La mia ballerina” – un giorno, a sedersi alla scrivania e tirar fuori da dentro un pensiero, una suggestione, una storia, sapendo che dovrà essere raccontata, sapendo che la si dovrà scrivere per forza?

Tutto comincia da un articolo scritto su LuciaLibri, in quella rubrica chiamata “C’è del Sacro” che, con mia grande sorpresa, già più d’una volta ha creato connessioni tra cuori ed anime, ha reso sacri – appunto – certi spazi personali, trasformandoli in reciprocità inaspettate! Si parlava del Maestro Antonino La Cava, del suo “ministero” stupendo che è quello di girare per la Basilicata (e non solo) con la sua moto ape, per andare a regalare libri a ragazzi e bambini, per invogliarli a leggere, per far nascere in loro, chissà, persino il mistico desiderio di dar corpo ad un’emozione attraverso l’arte della scrittura.

Una ragazzina lesse questo articolo.

Una mail

Pochi giorni dopo mi arrivò una mail, firmata Alteamaria Paola Cuozzo. Le prime righe, dalle quali veniva fuori tutto lo splendido stupore di un cuore puro, mi fecero pensare che quella lettera intendesse mostrare solo un grato apprezzamento per l’iniziativa del Maestro La Cava; ma poco dopo scoprii che la mia mittente era non solo una lettrice, ma una giovanissima scrittrice, un’autrice vera e propria.

Ora, vi spiego una cosa. Quando uno che scrive recensioni riceve una lettera da parte di una casa editrice, o addirittura da un autore, prova una certa quale emozione che è molto difficile da spiegare. Per capirci, è come se si entrasse a contatto direttamente con la scaturigine di un pensiero, con l’origine di un’opera, senza altre mediazioni. Credo si provi la stessa emozione di quando, durante una passeggiata in montagna, ci si trova ad abbeverarsi direttamente ad una fresca fonte d’acqua, così, con le mani incavate, senza l’aiuto di bicchieri o bottiglie. Insomma, è una cosa bellissima! Ecco. Ricevere la mail di un’autrice, anche se giovane, giovanissima, produce le medesime emozioni. Alteamaria mi diceva di aver scritto una storia, e lì per lì – capita quando i pensieri si muovono più veloci degli occhi – pensai che stesse per chiedermi di scrivere un articolo sul suo libro. Invece, e me ne stupisco ancora, l’unico suo desiderio era quello di potersi mettere in contatto con il Maestro La Cava, così da fargli avere qualche copia della sua storia in modo che altri ragazzini come lei potessero avere qualcosa da leggere, e potessero – al contempo – leggere qualcosa che veniva dal cuore d’una loro coetanea.

La richiesta mi riempì di gioia, per tantissime ragioni. Intanto per il fatto che una bambina potesse già portare con sé la bella esperienza d’aver scritto un libro, e quindi sapere che quel giovane spirito fosse già irrimediabilmente coinvolto nella magia dell’arte! Ma soprattutto il desiderio così bello, così buono, di non usare quest’arte tutta per sé, per compiacersi (come fanno troppo spesso gli adulti), ma per dare gioia a qualcun altro.

Una richiesta

Risposi immediatamente ad Alteamaria, girandole l’indirizzo del Maestro La Cava e chiedendole, contemporaneamente, di mandarmi – se fosse stato possibile – una copia del suo libro. Ero veramente curioso! Ma soprattutto, desideroso di fare con lei e per lei ciò che, normalmente, mi tocca fare con libri scritti da persone molto più grandi.

Avrei letto il suo libro, avrei cercato di capirne l’anima, mi sarei sforzato di raccoglierne il senso più profondo e – soprattutto – non mi sarei mai e poi mai lasciato distrarre dal fastidioso sentimentalismo di chi, trovandosi in mano lo scritto d’una ragazzina, comincia ad avere sul volto quel classico sorrisino di idiota sufficienza: “Che carina! Ma brava!”, come se un libro non meritasse d’essere letto per sé stesso. Ecco, avrei fatto così: non lo avrei, per nulla al mondo, considerato un lavoro meno impegnativo degli altri. Mi avessero messo in mano, in quel momento, il libro più importante della storia universale della letteratura, per me sarebbe stata la stessa identica cosa.

Tracciati i margini precisi della mia deontologia, attesi trepidante che il libro mi arrivasse a casa. Cosa che, puntualmente, avvenne qualche giorno dopo.

Una bambolina di vetro

La mia ballerina (47 pagine, 8 euro) di Alteamaria Paola Cuozzo, pubblicato da Argomenti edizioni, a dispetto del numero delle sue pagine, mostra con chiarezza di esposizione, e senza perdersi in vuote costruzioni, la storia di una coscienza che riflette su sé stessa, sul tempo, su quali siano – man mano che la vita procede sulla propria strada – le opportunità da cogliere e riprendere in mano perché si possa essere autenticamente sé stessi.

La storia racconta, attraverso i ricordi di una bambina che cresce, e che dunque mostra tra le pagine un sempre più consapevole senso del sé, le gioie e i patimenti di chi, crescendo, è chiamato a reinterpretare la propria storia e il significato dei propri ricordi, iniziando a scremare dal passato quegli elementi che non appartengono più al tempo (perché non possono definirsi come appartenenti esclusivamente all’ambito della memoria) ma, al contrario, costituiscono la struttura portante e onnipresente di un’anima che è quella e non altre.

Nella fattispecie, il racconto ruota (come in una piroetta) attorno all’immagine simbolica di una bambolina di vetro, una piccola ballerina da carillon che, nella sua semplicità, non solo dà il nome al racconto ma, in qualche modo, identifica e ripresenta la protagonista nella sua forma più intimamente trasfigurata: l’immagine della sua stessa coscienza che, come dall’esterno, la guida verso la sua realizzazione.

Senza angelo custode

Chi ha visto Inside Out ricorderà la struggente scena in cui, ad un certo punto, Bing Bong, l’amico immaginario di Riley, si sacrifica perché questa possa superare i confini della sua infanzia, dalla quale non vorrebbe mai uscire, così che possa crescere e superarsi. Nel breve romanzo di Alteamaria questa ballerina di vetro occupa il medesimo spazio e svolge la stessa funzione: dopo essere stata, per un certo tempo, la consigliera simbolica delle emozioni e delle fatiche della protagonista, ad un certo punto, forse provvidenzialmente, la ballerina di vetro va in pezzi. La distruzione del simbolo, che per la protagonista costituisce una vera perdita, un addio violento ed irreparabile, mette però in moto quella serie di processi che, in una giovane anima, cominciano ad essere gli elementi di quello che – durante tutta la sua vita – costituirà la capacità di interpretare sé stessa e di saper decodificare le proprie più intime aspirazioni.

Il trovarsi così, da sola, da un momento all’altro, senza più la magica compagnia di questo angelo custode di vetro, metterà la protagonista nella condizione di dover scegliere da sola, di dover capire cosa essa voglia davvero da sé stessa.

La coscienza che evolve

Il continuo richiamo alla descrizione di certe coreografie, in cui la protagonista si rivede in ruoli da solista, non diventa e non è – dunque – solo un’infantile necessità di voler stare sempre al centro dell’attenzione ma, al contrario, l’espressione di una precisa necessità: capire quale dovrà essere il proprio posto, e dunque operare una precisa distinzione tra lei e gli altri, non perché gli altri siano messi fuori gioco, ma perché lei possa comprendere chi è davvero, e per farlo è necessaria una cesura! Insomma, il palcoscenico di Alteamaria – che per il lettore poco attento può essere solo la cornice narrativa all’interno della quale si svolge un balletto – è invece la proiezione stessa della coscienza dell’autrice che, da quel palcoscenico, osserva chi la osserva, e negli occhi degli altri vede crescere sé stessa. In tutto ciò, la fatica delle evoluzioni stilistiche della giovane ballerina, che ci mostra tutti i passi di danza, peraltro fornendoci un lessico fino a questo momento ignoto (e quindi svolgendo un’autentica opera di tipo culturale), non è sono solo lo snocciolamento di tecnicismi da balletto ma presuppone, sulla stessa linea del simbolo, proprio l’insieme delle fatiche e dei passi di una coscienza in piena fase di evoluzione.

La bambina non è più solo questo. È una ragazzina, e lo si capisce anche dalla tenerezza e dall’attenzione con cui descrive sé stessa, i suoi costumi di scena, le parti del suo corpo che comincia a somigliare già a quello di una donna.

Ma prima che essa si impossessi nuovamente del suo palcoscenico, del suo vero sé, accade qualcosa. L’autrice inserisce, all’interno della narrazione, un elemento che – in altri contesti – potrebbe essere definito solo come qualcosa di magico o fiabesco, ma che qui, ancora una volta, vuol dire altro. E così leggiamo della sua passeggiata al centro commerciale e di come, quasi… per caso (ma sapete che noi non crediamo a queste due parole), avvenga qualcosa che, da quel momento in poi, sarà determinante. Da una biglia di plastica tirata fuori da una di quelle macchinette che funzionano a monete, e che tutti i bambini guardano quasi come ad una cornucopia, ecco emergere un nuovo totem, un nuovo simbolo. Apparentemente un semplice portachiavi ma, guardandolo meglio, un ciondolo con due scarpette dorate, due scarpette da ballo. Quasi un indizio, dunque! Quasi, per non dire “certamente”, una vocazione ad inseguire la parte più essenziale della sua anima. Per il lettore è come se si sentisse una voce venir fuori da quelle pagine, e pronunziare ancora quelle parole che Alteamaria immaginava sulla bocca della sua ballerina di vetro: Balla con il cuore!

Questa volta, però, non è più solo un consiglio, diventa un imperativo, diventa una direzione precisa: se vuoi essere felice, devi fare quello!

La ragazzina coglie il significato nascosto di quell’intima rivelazione proprio quando, qualche giorno dopo, la madre le rivela d’aver trovato una palestra di danza, così che lei possa riprendere ad esercitare la propria passione, dopo quella lunga e luttuosa pausa causata dal frangersi della sua ballerina.

La musica cambia

Ma non vi è più la danza classica a battere il tempo dei passi, né sono più i tutù in tulle colorato a contornare le curve delle giovani danzatrici. Adesso la musica cambia (proprio come nella vita), e la nostra protagonista dovrà confrontarsi con i caotici ritmi latinoamericani, espressioni di un’anima già più complessa. Il passaggio da uno stile all’altro, da una ballerina di vetro ad un ciondolo con delle scarpette dorate, segna chiaramente il transito dall’infanzia all’adolescenza, dove tutto comincia a mutare, portando con sé lo sgomento di tanti cambiamenti, ed insieme anche la scoperta iridescente di tutto ciò che è nuovo! La schiusa della crisalide, la formazione della perla. L’accesso ad una nuova età.

Nell’ultima parte della storia, è toccante l’immagine della gara al palazzetto dello sport, alla fine della quale, dopo aver vinto una coppa (e lì è la stessa vita che premia!), la protagonista scorge tra il pubblico un volto, uno tra tutti, che la guarda estasiata. È la sua ballerina, quella di un tempo che sembra ormai remoto, tornata lì proprio per lei, per dirle che c’è ancora, che non l’ha mai abbandonata, che le è stata sempre accanto. E calza delle scarpette dorate, che nulla c’entrano con il suo tutù bianco. Alteamaria se ne meraviglia, come ci siamo meravigliati noi quando – per la prima volta nella nostra vita – ci siamo trovati a dover fare sintesi di noi stessi, del nostro passato e del nostro presente, e così cominciare ad avere un’immagine chiara del futuro: «Una étoile che indossa scarpe col tacco tipiche del mondo latino?» si stupisce lei, riconoscendola «Una performance tutta speciale solo per me, speciale come lei».

Sì, perché ormai lei e la ballerina coincidono. E se il tutù e le scarpette latine si mostrano insieme, è perché nel cuore della protagonista le cose del passato e quelle presenti si sono riconciliate e riorganizzate in lei, nella sua giovane vita, nei suoi futuri progetti.

Licenze che ci stanno

Lo stile della narrazione, libero e anarchico come il puro racconto di una bambina, non manca di mostrare tutto un firmamento di metafore e similitudini, accuratamente ricercate o forse, chissà, addirittura naturali per Alteamaria, che certamente parla come scrive: con proprietà linguistica e accuratezza terminologica, magari senza curarsi troppo dei modi e dei tempi, come del resto è normale che l’anima di una ragazzina non si curi (il tempo è in effetti un problema da adulti, mentre Alteamaria usa i verbi come se li coniugasse continuamente ad un istante perennemente presente a sé stesso, l’istante di chi vive e basta). Il ritorno quasi spasmodico di certi avverbi, che in un’altra lettura sarebbero causa di tiratina d’orecchio ad un autore, qui sono semplicemente il riflesso di quello stupore tipico di chi, all’età di Alteamaria, comincia a fare esperienza di un lessico nuovo, che la colpisce e che essa vuol fare suo per cominciare a scrivere come i grandi, e che quindi usa con abbondanti licenze che non offendono nessuno, anzi, ci mostrano la bellezza di chi, imparando a conoscere la propria lingua sempre più, fa di tutto per impossessarsene e per metterla a frutto già fin da subito.

Ma soprattutto, ciò che colpisce, è sempre la stessa cosa. Uguale in Alteamaria come in tutti gli altri autori: cosa spinge un’anima, un giorno, a sedersi alla scrivania e tirar fuori da dentro un pensiero, una suggestione, una storia, sapendo che dovrà essere raccontata, sapendo che la si dovrà scrivere per forza? Questo il mistero che avvolge tutti gli scrittori, compresa la nostra autrice. Ed è bellissimo pensare che l’incontro con questo mistero sia avvenuto per lei così presto!

Ci viene da gridarle, sedendoci accanto alla sua ballerina di vetro che la guarda dagli spalti: «Balla con il cuore, e con il cuore scrivi! Come hai già fatto, regalandoci le tue stesse emozioni!».

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