L’Iraq disperato e violento, Al Shahmani figlio in fuga

Iracheno trapiantato in Svizzera da quasi vent’anni, Usama Al Shahmani è l’autore di “In terra straniera gli alberi parlano arabo”, storia personale di un rifugiato e quella di un paese, l’Iraq, dopo la caduta di Saddam Hussein. Una riflessione su radici e identità

“Cos’è la terra? Erba/aria folate erba/fruscio contesa/tra radicati e sradicati./E tu tra i due chi sei?”

La domanda di questa stupenda poesia di Anna Maria Carpi ritorna insistente nei giorni della nostra storia, tra notizie di esodi e migrazioni, donne, uomini, bambini, in fuga, dalla guerra, dai regimi autoritari e violenti, dalla fame, dalla desertificazione. E si apre ad una verifica più ampia, in cui essere radicato o sradicato non è una condizione anagrafica e geografica, ma esistenziale.

In terra straniera gli alberi parlano arabo (183 pagine, 16 euro) di Usama Al Shahmani, edito da Marcos y Marcos, è un’opera che porta questo tema impresso nella carne di ogni personaggio, nel suono di ogni parola, in ogni immagine. Usama Al Shahmani è uno scrittore iracheno che dal 2002 vive in Svizzera. Ha lasciato l’Iraq a causa del regime repressivo che si è instaurato in quel paese alla fine degli anni ’90.

Dolci ricordi e faticosa integrazione

Il romanzo è il racconto, teso ma mai disperato, di questa lacerazione. La patria è il luogo amato, la terra degli affetti, luogo di cultura, di formazione, i ricordi che il protagonista rivive hanno il tono della malinconia ma anche quello della rabbia, per il tradimento e la violenza che gli uomini al potere adesso esercitano su una terra ricca, viva, sui suoi figli. Ai ricordi dolci e dolorosi allo stesso tempo si contrappone un presente tessuto con la fatica dell’integrazione, in una Svizzera che ha programmi per l’inserimento lavorativo degli stranieri, ma anche piccole rigidità burocratiche. Passato e presente sono attraversati dalla vicenda del fratello del protagonista. Ali, un giovane studente impegnato e coraggioso, scompare, quasi certamente vittima delle repressioni del regime, nell’oscuro periodo successivo alla caduta di Saddam Hussein. L’autore riesce a trasmettere il clima di violenza, di disperazione, in cui è piombato l’Iraq. Ci racconta un frammento di storia su cui l’occidente ha spento i suoi riflettori, forse per superficialità, forse per cattiva coscienza. Sono pagine da leggere con ancora più attenzione, perché arrivano negli stessi giorni in cui una storia per certi versi simili si ripete in Afghanistan: intervento militare occidentale, fallimento dell’occidente, miseria e sopraffazione sulla popolazione, annientamento delle libertà, della cultura, infine indifferenza dell’occidente.

Storia sconosciuta e radici di un uomo

Il romanzo riesce a tenere insieme l’informazione storica sulle vicende dell’Iraq, che per molti di noi occidentali si fermano al crollo di Saddam; la storia personale di un rifugiato, la sua vita privata, i campi di accoglienza, i programmi di inserimento, le difficoltà a comunicare con i parenti in patria; una riflessione, universale, sui legami, le radici, l’identità, di ciascun uomo.

Gli alberi come confidenti

Mentre Usama cerca di conquistare la sua nuova terra, qualcosa da poter chiamare casa, che coincide sempre, anche, con la conquista di una lingua, (perché è la lingua la casa dell’essere, giusto?), gli alberi diventano i suoi confidenti, a loro scopre di poter parlare, anche se sono così diversi da quelli che conosceva. I tigli, i frassini, le querce, gli rispondono, è il dialogo tra radicati e sradicati, è la continuità e la discontinuità della vita. «Quando dico ‘patria’, il mio occhio interiore vede una palma da datteri», dice Usama in un passo del libro, perciò il tentativo di far sopravvivere una palma nel clima della Svizzera è una metafora precisa e viva dell’inclusione di Usama, delle migliaia di Usama che vivono ad ogni latitudine del mondo, oggi.

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