Dostoevskij 200. Myskin alla ricerca di bellezza e verità

Ne “L’Idiota” il tormento dell’autore, alla ricerca della radice della vera e assoluta bellezza, diventa il nostro. Quel Cristo incompiuto del protagonista, come lo mostra Dostoevskij (oggi ricorrono i 200 anni della nascita), rimane schiacciato dalla sua generosità e lascia un senso di infinita tenerezza…

Nutrire una passione viscerale per la lettura conduce, come Orfeo alla ricerca spasmodica della sua Euridice, ad immergersi con ingordigia fra le pagine del libro di volta in volta prescelto, abbandonandosi senza remore alla sua malia. Ogni lettore, avido di storie e di viaggi dell’anima, ha chiesto almeno una volta a se stesso quale libro salverebbe da un ipotetico nuovo diluvio, consegnando ai posteri un messaggio che possa guidarli verso un’autentica rigenerazione. La mia risposta, da almeno vent’anni a questa parte, è sempre la stessa, nonostante lo stratificarsi di letture e la continua scoperta di universi letterari stimolanti, ovvero: L’Idiota del geniale e, per me, inarrivabile Fëdor Dostoevskij.

Quale bellezza?

Da più di un secolo si consuma una mistificazione nei confronti del pensiero di Dostoevskij. Potremmo definirlo un adulterio, compiuto nei riguardi del senso originario di una frase che, nel tempo, è stata ripetuta infinite volte, tradendone le intenzioni originarie e distorcendone l’autentico significato.

Una domanda, che non conosce risposta, si è trasformata in un’affermazione perentoria. Il giovane Ippolit, figura tormentata e sofferente, asserisce che il principe Lev Nikolàevic Myskin abbia affermato che la bellezza salverà il mondo e, quasi come un’accorata preghiera, rivolge al protagonista un quesito destinato a cadere nel vuoto e a riecheggiare eternamente attraverso luoghi ed epoche distanti fra loro: “Quale bellezza salverà il mondo?”.

Quell’eredità greca…

La perfetta congruenza del romanzo si trova esattamente in questa domanda rimasta sospesa al filo dello scorrere del tempo, perché è proprio attraverso tale squarcio evocativo che si insinuano dubbi amletici e una serie di innumerevoli plausibili risposte. Risiede in questo nodo irrisolto, in questo aver lasciato al lettore, socraticamente, un enigma affascinante e complesso, la valenza profondamente filosofica del messaggio che Dostoevskij ha inteso consegnarci insieme alle pagine de L’Idiota. Il tormento dell’autore, alla ricerca della radice della vera e assoluta bellezza, diventa il nostro. Dostoevskij, però, non ci ha lasciati orfani di una chiave di lettura attraverso cui interpretare il romanzo, il cui nucleo centrale ruota – appunto – attorno alla ricerca del senso più alto, più nobile dell’esistenza. Il principe Myskin, l’idiota, incarna perfettamente, seppur in maniera dolente e sofferta, il connubio di bontà e bellezza che la Grecia classica ci ha tramandato come incomparabile eredità, riassunto nel binomio kalós kai agathós. Per Platone, ad esempio, la bellezza è il manifestarsi della verità e, al di là di una rigorosa corrispondenza a canoni estetici evanescenti, in Myskin il contenuto si invera nella forma, da cui traluce purezza d’animo e d’intenzioni.

Santità o follia?

Rischia di passare in sordina, ad un lettore non allenato alle sottigliezze contenutistiche di Dostoevskij, un particolare che invece assume un’importanza capitale nell’economia complessiva del romanzo. Un messaggio d’amore del principe, travestito ingenuamente da parole dettate da pura amicizia, diretto verso il personaggio di Aglaja, che non brilla a dire il vero per fascino e attrattiva, viene nascosto dentro un volume preso, apparentemente a caso, da una libreria. Il libro a cui ci riferiamo è il capolavoro di Miguel de Cervantes: Don Chisciotte della Mancia. L’accostamento fra i protagonisti di due delle più grandi epopee letterarie di tutti i tempi è inevitabile, come risulta naturale il richiamo, presente in queste due figure, a Cristo: incarnazione del Sacrificio supremo consumato per la salvezza dell’umanità.

Don Chisciotte e Myskin rappresentano l’essere umano nell’atto della scelta consapevole – al di là di ogni apparenza contraria – del perseguimento della via della Verità, dell’Alétheia parmenidea, che conduce su sentieri faticosi e impervi che, entrambi, continuano comunque a percorrere con decisa ostinazione.

La demarcazione fra Dostoevskij e Cervantes

L’epilogo delle loro esistenze letterarie costituisce il punto di demarcazione netta fra i due personaggi, la cifra spirituale ultima e peculiare, che Cervantes e Dostoevskij hanno voluto consegnare ai posteri.

Don Chisciotte ritrova, in punto di morte, il filo della sua intera esistenza, consegnando tutto di sé, con fiducia illimitata, alla Misericordia divina, divenendo in tal modo la rappresentazione piena e risolta dell’umanità intera, laddove aneli a un riscatto salvifico della propria fallibilità.

Il personaggio del principe Myskin lascia, invece, nel lettore, un senso di infinita tenerezza. Nella sequela del bene, che pur professa con totale dedizione, rimane schiacciato dalla sua stessa generosità. Come un Cristo incompiuto, non riesce ad ergere una barriera contro il male che risale prepotentemente dalle viscere della terra e, avendo guardato  a lungo nell’abisso, quell’abisso gli restituisce uno sguardo che lo fa riprecipitare nella follia.

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