Barrera, un faro per prendere le distanze da se stessa

“Quaderno dei fari” di Jazmina Barrera è il resoconto di ciò che avviene ogni qualvolta l’autrice programma la scoperta di un nuovo faro: organizza, nel dettaglio, la fuga da se stessa. Arrivare al faro, nonostante ciò, è arrivare alle sue radici, arrivare alla profondità, a qualcosa di remoto, di dimenticato…

Può essere un faro, così solitario e scostante, il luogo in cui riporre le proprie radici? In un certo senso ce lo racconta Jazmina Barrera nel suo Cuaderno de bìtacora, Quaderno dei fari (128 pagine, 15 euro) – edito da La Nuova Frontiera nella traduzione di Federica Niola – in cui la ricerca continua di un faro è l’espediente che la scrittrice “usa” per indagare se stessa: raggiungere quel faro è un modo per prendere il largo, per prendere le distanze da se stessa. La prima volta che vede un faro è in un sogno di bambina, quando ancora non conosceva i fari, «ne ho sognato uno; era abbandonato e lontano dalla costa», quel sogno diventa così personale da indurla, da adulta, a mettere in piedi una collezione di fari, una collezione imponente se non fosse per la sua intangibilità, una collezione che sfida il fallimento che ha permeato le precedenti, come ci confessa l’autrice; ciò che colleziona per prima è una tregua dalla realtà circostante: «quello che provo per i fari è l’esatto contrario della passione, in ogni caso è passione per l’anestesia. Dipendenza da qualcosa di analgesico. Vorrei trasformarmi in un faro: freddo, insensibile, solido, indifferente». La collezione di fari racchiusa in quei quaderni, che in fondo sono un diario di bordo, è il resoconto di un solo viaggio: quello verso se stessa, «con i fari smetto di pensare a me stessa. Mi allontano nello spazio e vado nei luoghi remoti. Mi allontano anche nel tempo, verso un passato che so di idealizzare, in cui la solitudine era più semplice».

Quando scappare è costruire

Questi appunti di viaggio sono il resoconto di ciò che avviene ogni qualvolta l’autrice programma la scoperta di un nuovo faro: organizza, nel dettaglio, la fuga da se stessa, «diventa dunque non soltanto un modo di scappare, ma anche di costruire. Si può creare per mezzo della fuga». Per questo il faro, per quanto assurdo possa sembrare, è custode di certe radici, per l’autrice è il luogo a cui tornare, e tornare, in cui queste radici si alimentano e anche se il faro sembra un luogo freddo e distante, arroccato su un braccio di terraferma, circondato da acque impetuose, è in lui che si riscontrano i compiti di guida, di aiuto e salvezza. Se è vero che «la gente mi pare un pericolo costante», un pericolo rappresentato da quelle acque buie, impossibili da addomesticare, ma che allo stesso tempo vanno attraversate per raggiungere il faro, allora l’autrice comprende “ le obiezioni al desiderio di evitare il mondo. So che quello di chi osserva dall’alto, dalla torre può essere un atteggiamento egoista e altezzoso. Per questo i fari mi sembrano così attraenti: combinano quel disprezzo, quella misantropia, con il compito di guidare, di aiutare, di salvare gli altri”, la stessa salvezza cui ambisce chi compie questo viaggio. Quegli appunti, rappresentano, ci raccontano in che modo un faro possa rappresentare le proprie radici, pur non essendoci, all’interno della collezione, un faro solo, non avendo scelto, espressamente, un luogo preciso in cui collocare le radici e al quale tornare, per poter vivere quella condizione di pace che sta nel ritorno alle origini.

Nell’attesa l’euforia definitiva

Allontanarsi dalla realtà, condurre se stessa verso quel faro che è stato la salvezza per i naviganti in pericolo, attraversare quella dimensione di alterità che è una tregua salvifica, riconoscere le forti emozioni provate in passato, è ciò che accomuna l’esperienza di Barrera, intravista nei suoi quaderni, a quella di Frisch in cui il faro è presente all’inizio e alla fine del suo romanzo ed è dentro a questo tempo incalcolabile che avviene la trasformazione, l’uomo matura la consapevolezza di voler tornare alla realtà, ma ormai è un uomo cambiato, ciò che esercita fascinazione è il ricordo dell’emozione vissuta in quell’arco di tempo tra un faro e l’altro. Questo esercizio della mente è ciò che descrive Virginia Woolf, per la quale il passato è così bello, perché “non si è mai del tutto consapevoli di un’emozione quando la si prova”. È questa l’ebbrezza che attraversa l’opera di Jazmina Barrera, il suo corpo e la sua mente, ogni volta che si spinge oltre il confine per aggiungere un faro alla sua collezione, assapora il gusto del ritorno. È nell’attesa l’euforia definitiva.

Un passato incapace di tornare

Quando questa euforia giunge al suo culmine ecco che l’autrice sente una sorta di impotenza, «il ricordo non eguaglia mai l’esperienza. Il ricordo di questo viaggio, le mie parole sul ricordo, saranno sempre insufficienti rispetto a ciò che è stato», così scrivere un cuaderno de bìtacora è dare forma ad una collezione, quella di una memoria personale che si discosta dal dolore, («il dolore ha la caratteristica di accentuarsi quando ci si pensa»), distanzia il pericolo («il rischio è quello di sentirmi troppo a mio agio, di abituarmi alla ripetizione identica dei giorni, a un’interazione minima con gli altri») e se è vero che si sente “disorientata” ecco che camminando «alla cieca mentre calava la notte», «abbiamo scorto in lontananza una luce intermittente», la luce del faro che porta salvezza, quella luce attira verso di sé perché è la luce di casa. Per quanto lei creda di allontanarsi da se stessa, è un viaggio che la conduce verso un’esperienza denotata da un passato emozionale, che la porta ad una dimensione di alterità, ma allo stesso tempo è destinata a tornare sulla terraferma: arrivare al faro è arrivare al nocciolo della questione, è arrivare alle sue radici, arrivare alla profondità, a qualcosa di remoto, di dimenticato. Per lei «l’atto di collezionare è una forma di evasione […] si evade dalle mancanze e dai vuoti»; mi chiedo se questo approccio valga anche per i ricordi? Collezionare ricordi ci consente una evasione? Forse no. Per questo come accade ai «marinai delle storie, come Sindbad», non appena«superano gli ostacoli e ritornano sulla terra ferma se ne vanno”, sanno «che non si può tornare indietro. Non c’è modo di tornare», per Jazmina Barrera come per ogni marinaio, quel viaggio intrapreso verso il faro, è diventato qualcosa di scottante, dal quale non è più possibile prendere le distanze, è un viaggio a ritroso verso un passato incapace di tornare.

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