Del Giudice, avere fede nelle possibilità della letteratura

Torna in libreria “Lo stadio di Wimbledon”, debutto di Daniele Del Giudice, scomparso lo scorso settembre. Un libro che risponde all’esigenza primaria della letteratura: inanellare frasi belle su frasi belle. E poi, nella figura del protagonista Bobi Bazlen, c’è l’interrogarsi sulla capacità della letteratura, e del romanzo in particolare, di cogliere la profonda complessità del reale…

«Non so… lei cosa pensa?»  Dico: «Non so, non posso pensare nulla… però l’opinione più alta dello scrivere ce l’ha quasi sempre chi ha deciso di non farlo. È molto esigente».

«Forse… però è vero come pensava lui, che ci sono troppi libri, e che è inutile aggiungerne altri. Se non ci fossero più libri la gente dovrebbe pensare con la propria testa».

Dialoghi come questi, in tal caso tra chi ha conosciuto lo scrittore che non ha lasciato niente di scritto e l’anonimo io narrante che si mette sulle sue tracce quindici anni dopo la sua morte, definitivi e che allo stesso tempo aprono un ventaglio inesauribile di domande come tutto quanto Lo stadio di Wimbledon (140 pagine, 15 euro) di Daniele Del Giudice riproposto quest’anno da Einaudi dopo anni di assenza dalle librerie, rispondono all’esigenza primaria della letteratura: una frase bella alla quale ne deve seguire un’altra ancora più bella, e nel romanzo ce ne sono, incastonate tra dialoghi anch’essi perfettamente calibrati come i sopra citati, questa in fondo l’unica vera ricetta per un bel libro, in ossequio a una delle tante verità e inesauribili spunti che danno alcune delle lapidarie frasi disseminate lungo questo inclassificabile volume di esordio del 1983 dell’autore veneziano scomparso lo scorso settembre: «Il vero comportamento che c’è nei libri è il comportamento di fronte alla forma». Un romanzo come questo, benedetto da Italo Calvino che lo definirà un «insolito libro», nel quale la trama è pressoché assente, che troverà espressione nelle parole dello stesso Calvino nella quarta di copertina del volume alla sua prima uscita nel 1983: «Chi ha posto giustamente il rapporto tra saper essere e saper scrivere, come può pensare d’influire sulle esistenze altrui se non nel modo indiretto e implicito in cui la letteratura può insegnare a essere?».

Scrivere o vivere?

Si può scrivere su uno scrittore che ha deciso di non scrivere? Questo strano oggetto piombato come un meteorite a inizio anni Ottanta nel panorama letterario italiano ci dice che è doveroso farlo. Raccontare o esistere? Rappresentare o agire sulle vite delle persone? In gioco vi è la stessa essenza della letteratura, la distanza tra le cose e le parole che dovrebbero rappresentarle, l’interrogarsi sulla capacità della letteratura, e del romanzo in particolare, di cogliere la profonda complessità del reale, tema fondante della corposa opera successiva di Del Giudice Atlante occidentale. 

Il convitato di pietra

Quasi un meta testo il suo romanzo di esordio, una riflessione meta letteraria sulle intrinseche possibilità della letteratura. In gioco vi è la responsabilità morale dello scrivere, verso gli altri e verso se stessi. Lo scrittore che non scrive è la più potente immagine del romanzo. Preferisco di no direbbe il Bartleby di Melville. Il convitato di pietra del romanzo di Del Giudice è Bobi Bazlen, ma non è importante sapere che sia lui come personaggio letterario storicamente determinato anche se il riferimento allo scrittore triestino è più che giustificato in quanto lo stesso non pubblicò niente in vita. Ha fatto un’altra scelta, ha deciso di intervenire e aiutare le persone che arrivate a un certo punto della loro vita hanno dovuto affrontare dei cambiamenti e lui le ha aiutate in questo, come dice Ljuba (suggestione montaliana), l’ultima persona che lo ha conosciuto e alla quale il misterioso protagonista e voce narrante si rivolge per avere sue notizie recandosi a Londra: «E lui le ha aiutate a cambiare o a decidere. Io credo che questa era la sua passione, e il suo capolavoro. Nient’altro».

Un fantasma a caccia di un fantasma

Lo stadio di Wimbledon è il viaggio di un uomo davanti alla scelta di prendere la parola, un percorso quasi sonnambolico del protagonista, mai nominato, quasi un fantasma, alla ricerca di un altro fantasma, quello dello scrittore che non scrive, seguendo le sue tracce nelle strade, nei lungomare, nei caffè, nelle librerie, nelle biblioteche di Trieste, la città oltre che di Bazlen di Saba e di Svevo, appena evocati, una città anch’essa quasi onirica e nella quale il suo visitatore si smarrisce perché «mi disorienta la posizione del sole rispetto all’acqua e il tipo di luce e di colore. O forse perché sono abituato ai mari che scorrono in modo tangenziale, non che cominciamo, come qui».

Le cose minime

Un onirismo diurno che prosegue seguendo le incerte mappe sullo scrittore che non ha scritto niente fino alla periferia di Londra, lasciandosi cullare dal dondolio di un treno o dal leggero scuotimento della carlinga di un aereo (immagine stessa della letteratura), magari lo stesso che porta il protagonista senza nome del romanzo nella capitale britannica. Sono cose minime come la piega del pullover, il bordo di un biglietto della metropolitana a cogliere il respiro stesso della vita anche nei più banali gesti, pose e frasi che in essa scorre e che l’atto della scrittura cerca di rendere in un modo fatalmente parziale benché evocativo e illuminante perché: «qualunque frase è contro il panorama» e «scrivere non è importante, però non si può fare altro». La letteratura è come un grande libro di sabbia, viene in mente il titolo di Jorge Luis Borges, un altro grande autore che ha fatto del suo dialogare con degli spettri e della riflessione meta letteraria la sua opera letteraria. Significativa nel romanzo di Del Giudice è anche l’immagine ricavata da un romanzo di Bradbury con i disegni dei pesci e delle piante del mare disegnati sulla sabbia da Picasso e poi destinati a scomparire con l’arrivo della marea.

Suggerire nuove mappe

Eppure i libri sanno o provano a indicarci quale è la nostra posizione nel mondo, questo forse è quello che vi cerchiamo dentro, per non perdersi nel panorama: «Lei sa cosa significa “sentire” dove sta una persona in un determinato momento» dice Ljuba.

Daniele Del  Giudice con il suo fulminante esordio e con le opere successive non ha provato a spiegarcelo, ha solo posto delle domande, ha provato diversi anni fa a suggerire nuove mappe, il riferimento alla Carta di Mercatore nei bellissimi brani anche riguardo all’uso dei tempi verbali nella descrizione del volo a Londra del protagonista è una delle immagini chiave, fino ad arrivare con la visione dello stadio del tennis più famoso al mondo di cui al titolo; la sua comparsa agli occhi dell’indomito studioso-ricercatore di scrittori e voce narrante del romanzo (l’immagine stessa dell’intellettuale o semplicemente dell’uomo) quasi un’epifania e una visione archetipica, una sorta di monolite del tipo 2001 Odissea nello Spazio che lascia aperti tutti gli interrogativi, come un grande romanzo deve fare e come Daniele Del Giudice con i suoi libri ha fatto, lasciandoci allo stesso tempo la più viva e appassionata professione di fede nelle possibilità della letteratura.

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