Il biografo, che sceglie di raccontare una vita in forma romanzata, come una qualunque storia, scrive di chi l’ha vissuta, e scrivendone la rivive egli stesso. Accade con la biografia romanzata “Baruch Spinoza. Il passo del clandestino” di Mimma Leone: in una Amsterdam poeticamente immaginata e trasfigurata emergono il filosofo e l’uomo, con le stesse domande che stanno dentro ciascuno di noi, a proposito di vita, morte, tempo e necessità

Se i romanzi storici costituiscono i coraggiosi pionieri di una letteratura che, col tempo, si è imposta sempre più sul margine del potenziale, fino a diventare una punta di diamante ed un anello di congiunzione tra generi apparentemente ritenuti distanti fino a pochi decenni fa, le biografie romanzate sono le discrete sorelle di questi pionieri, le loro più silenziose e meno appariscenti controparti femminili. Se il romanzo storico infiamma, avvince, conquista il lettore con slanci tipici appartenenti al magico mondo dell’invenzione letteraria, la biografia romanzata procede a passi più misurati, parla con voce sommessa, si guarda attorno con circospezione. Sembra quasi che, tra un capitolo e l’altro, vigili sul bianco d’una pagina perché non vi s’introduca furtivamente, da quel magico mondo, un qualche clandestino letterario.

Lo sa bene chi sceglie un libro dopo averne già scelti tanti altri, perché sa bene ciò che cerca e dove vuol essere condotto. Nella mistagogia propria di un libro, ciascun pellegrino che varchi il confine ultraterreno della lettura richiede a fianco un vate differente, a seconda di cosa si voglia o si debba esplorare.

Romanzieri e cronisti

Così, se mi trovassi naufrago su una nave alla deriva, in un angusto XVII secolo senza ancora radar e satelliti, e temessi d’essere inghiottito dalla memoria come dal mare, allora evocherei al mio fianco un romanziere, perché potesse creare una storia capace di mettermi in salvo dalla Storia, nella quale i ricordi sono come vestigia affardellanti. Ma se, nel medesimo secolo, mi trovassi a passeggiare per i vicoli di Amsterdam, rassicurato già dal trovarmi non più in mare ma in un porto tra i più belli al mondo e suggestivi, e sentissi disciolta nell’aria la greve fragranza che mescola in un sol lezzo povertà e bellezza, splendore e malinconia, mistero e conoscenza, allora pregherei perché accanto a me vi fosse un cronista attento, onesto osservatore di quel mondo, fedele narratore della Storia. Ed egli, che pure non vorrebbe mai togliermi il gusto di godermi quell’esperienza come se facessi visceralmente parte, mi porgerebbe la Storia come una storia, come se fosse un romanzo, appunto.

Ma sarebbe una biografia. Attenta, onesta osservatrice di quel mondo. Fedele narratrice della Storia: Baruch Spinoza. Il passo del clandestino (189 pagine, 19 euro), pubblicato da Graphofeel Edizioni.

La voce sarebbe quella di Mimma Leone, già usa a raccontar cantando, già troppo esperta di mare e di conchiglie per non riconoscere l’aria di un porto e, da lì, ripercorrere la città fino ai suoi bronchi, dove si consuma il respiro della sua stessa vita. E lo farebbe fino a condurmi a contemplare un altro angelo imperfetto, di quelli cui qualcuno ha tagliato le ali, o che gli si sono squagliate in coraggiose ascese di pensiero e di passione.

Nulla può spegnere un’anima

Me lo mostrerebbe con un cenno, lì, in mezzo a quella folla di mercanti e ribelli, quasi sperso nel suo stesso mantello eppure, oggi come allora, riconoscibilissimo. Il volto pallido, su quel nero tabarro, spiccherebbe come un proclama, come una voce di aiuto in mezzo a tanta tenebra; e su quel volto un superstite e cupo sorriso sarebbe la prova che nulla può spegnere un’anima, né l’ostracismo né la persecuzione, né l’isolamento estremo.

«È Spinoza!» griderei a mezza voce, sicuro d’averlo visto altre mille volte dal vivo quando invece sarebbe la prima. Ma il mio cervello, abituato a ricavare riflessi di verità dal tornio dell’immaginazione, mi direbbe che dietro le lenti di tanti quadri e ritratti, la verità del filosofo mi è arrivata lo stesso, la sua anima, il suo lógos atemporale, così che io potessi riconoscerlo.

Questo mi suscita la lettura di una biografia romanzata quando, come dicevo prima, nell’umile e discreta descrizione d’una fedeltà storica che crea distanze di contegno da quelle pindariche di un romanzo, vi è chi – disponendo di elementi numerabilissimi e finiti – riesce con grande maestria ed arte (e vi è pure una forma di amore, e si vede!) a tesserli insieme su una stoffa più ampia che è quella della narrazione. Ti accorgi che non c’è bisogno di inventare nulla, se non qualche cerniera, qualche necessario dialogo o magari il conchiuso ed intimo pensiero del protagonista, i suoi sogni, le sue mute inquietudini, e la rappresentazione di qualche scena che possa essergli passata davanti agli occhi. Nello scenario di una verosimiglianza che dev’essere, per il romanziere biografo, la più sudata delle sue fatiche, non hai bisogno di inventare nulla perché qualunque cosa, narrata con simile vicinanza alla novità sempiterna di un’anima, si mostra sempre come l’invenzione nuova della realtà: il suo ritrovamento! Tu che conoscevi Spinoza lo “ri-conosci” nel senso che… lo conosci di nuovo! Lo ritrovi, e questa volta a casa sua.

Dentro l’anima o l’anima dentro te

In una delle sue case. Quella paterna, quella di Franciscus o la sua ultima dimora? Poco importa. Sei sempre lì con lui, nella sua stanza, a guardarlo lavorare, a chiederti come possa aver consumato la giovinezza e gli occhi dietro lenti e dementi. Però, rispetto a prima, a quando cioè l’hai studiato sui banchi di scuola o nei rimbombi di un’affollata aula universitaria, questa volta lo conosci davvero. Un po’ meglio, sicuramente. Un po’ più veramente. Perché ne cogli i pensieri e le angosce prima ancora che l’autrice te le sveli: segno che lei è riuscita a farti entrare dentro l’anima del suo protagonista, o la sua anima è entrata dentro di te.

Il primo impulso razionale è quello di credere che, materialmente, non hai colto altro se non la sensibilità della narratrice, sei diventato sensibile ai suoi ritmi, ai suoi crescendo, tanto da anticiparne i movimenti, come solo i grandi guerrieri sanno fare con i loro avversari, o gli innamorati coi loro amanti. Ma poi comprendi che non può essere solo questo, perché vi è lo scarto della commozione, della partecipazione spirituale al dramma proprio di Baruch, alla sua più intima umanità. Comprendi che riesci a capirlo, e che sono i suoi i pensieri che stai intercettando come Mimma, prima di te, aveva già fatto.

Sono i miracoli dell’amore, quando segue a ritroso la via del tempo e va a cercare tra i reclusi della Storia. E li trova sommersi nelle loro carte, non come il prodotto scolastico di ciò che hanno scritto, ma come – finalmente – gli autori umani delle loro meditazioni. Negli oggetti sparsi di quella stanza, nel vetro opaco d’una finestra che si affaccia sul paradosso di una città inconscia e rumorosa, nel sussurro di quel luogo dove tutto, davvero fino ad ogni granello di polvere, è Dio, allora raccogli il silenzio di un uomo, da cui sono scaturite tutte le sue parole.

Capisci, pagina dopo pagina, che quella biografia non era mossa da preoccupazioni accademiche ma da un’intenzione umana, da quel desiderio che riesce a scavare e a cercare un superstite tra le macerie del tempo, e lo trova che ancora respira.

Biografia essenziale, non essenzialista

Alcune biografie partono dall’inizio, e scrupolosamente seguono al piede tutti i passaggi anagrafici: scene del protagonista a due anni, a quattro, a sette, a dieci, e così via fino alla morte. Altre, addirittura, sprofondano nelle radici della famiglia stessa del protagonista, unendo altre vite alla sua che, così e presumibilmente, apparirà ancora più fitta di realtà.

Può trattarsi di una coraggiosa aspirazione alla verità, che intende ricostruire tutto per consegnarci un prodotto totale. Ma può nascondere l’illusione di aver detto tutto. Non solo: nel tentativo di consegnare una biografia totale, dove l’oggetto narrato risulta un prodotto totale, questa totalità rischierebbe d’essere sovrapponibile ad un insieme finito di elementi. Ogni totalità è una fine. Il fine, invece, supera il totale e cerca l’infinito. Non necessita di ricostruire ogni cosa, di elencare ogni fatto ed ogni età; non sente il bisogno di mettere in nota, sulla faccia del protagonista, ogni glossa che possa predicarne l’esistenza. Il fine coglie l’essenziale e lo sviluppa attraverso gli scorci di un sogno che può anche durare poco, e soffermarsi su una parentesi anche piuttosto limitata di esistenza, purché, da quell’accenno, sia possibile risalire all’universale. Una biografia essenziale, come quella della Leone, non è necessariamente essenzialista! Al contrario, straborda oltre l’impertinenza della cronaca e ti dice cose che un faldone non potrebbe mai registrare! L’essenzialismo vorrebbe cogliere il tutto e pretendere di fornirti l’universale liofilizzato negli eventi. L’essenzialità fa esattamente il contrario: riesce ad esemplificare pochi accadimenti e, in essi e da essi, ti fa procedere verso l’Uno, che è sempre universale. L’essenzialista cerca il sillogismo di date e fatti, diacronicamente ordinati a svantaggio del loro possibile sviluppo; l’essenziale scende in profondità, nella diacronia della vita, dove tutto è caos, dove si manifesta il Divino nel disordine della sua innumerabile molteplicità.

Faccio un esempio.

Leone è anche il simbolo del secondo Evangelista. Ed egli, come tutti i narratori che hanno dovuto aver a che fare con elementi biografici non fini a se stessi, e che quindi hanno dovuto usarne senza esserne usati, ha preferito concentrarsi sull’Uomo. Marco racconta la storia del suo protagonista che, certo, contiene anche elementi biografici, se no non sarebbe storia; ma l’Uomo è più importante! Non l’uomo è stato fatto per una biografia, ma la biografia per un Uomo! E così, tra un fatto e l’altro, tra un avvenimento e un altro, anche Marco racconta soffermandosi su sfondi che, al setaccio della cronaca storiografica, potrebbero insospettire ma, sostenuti dall’intenzione di comunicare un’Anima prima che il suo perimetro terreno d’esistenza, esaltano e realizzano tanto il fine letterario quanto quello poetico e, quindi, profetico. Così, sul Calvario, pochi si chiedono se il centurione, davvero, abbia detto e in quel modo tali parole. Non occorre chiederselo, perché il fatto narrato ci presenta la verosimiglianza del tutto!

Il filosofo che passeggia e una bimba

Mimma Leone, similmente, e ciò che sto per scrivere è la ragione prima del mio plauso alla sua penna, si sofferma a descriverci una passeggiata del Filosofo su un prato in fiore, che chi è stato in Olanda può capire. Il Filosofo in compagnia d’una bimba che è la figlia del suo ospite e che, unica innocente leggerezza nella vita del maledetto Baruch, gli permette di respirare felicità attraverso la sua stessa innocenza. La piccola ama stare in compagnia di Baruch, come talvolta i bambini, affascinati da certi adulti che paiono loro grandi. E anche lui, seppure schiacciato dalle incombenze del lavoro e della sua produzione filosofica, trova il tempo per ciò che tempo non ha: l’anima che cerca il proprio riposo nei giochi di una bambina. I tulipani sono i testimoni di questo idillio innocente in cui il pensatore acuto, profondo, misterioso e cupo si scioglie in semplici sorrisi mentre lei, la piccola Anna, contenta d’essere andata a fare quella passeggiata, gli sorride a sua volta. Lui sta seduto sul prato e lei gioca; lei fa quello che fanno i bambini e lui, in quel momento, ciò che fanno gli uomini: vive.

La scena è così forte, così evocativa che davvero non ci interessa sapere se ciò sia realmente accaduto! Non importa affatto perché ci consegna un Uomo prima che un filosofo, un Uomo senza il quale il filosofo non sarebbe mai esistito!

Ma…

La piccola Anna morì nel sonno in una notte d’autunno, mentre il vento spazzava fuori foglie arancioni accartocciate fra loro.

Arrivò l’inverno e Baruch si rintanò nella sua stanza dove trascorreva gran parte delle ore del giorno a studiare. La scomparsa della piccola Anna aveva rappresentato per lui il primo vero contatto con la morte in tutta la sua assurdità.

 

Cosa ci sta dentro un filosofo, se non – prima di qualunque altra cosa – le stesse domande che stanno dentro ciascuno di noi? La vita e la morte, il tempo e la necessità.

Ritengo che certe scene, così come Mimma Leone le ha tratteggiate, e ciò che ha scritto dopo di esse, costituiscano il cuore pulsante di questo libro perché, come dicevo, ci restituiscono un uomo prima di qualunque altra cosa. Nelle sue relazioni con gli altri, nelle sue spicciole piccolezze comuni a noi tutti, nelle sue particolari grandezze che l’hanno reso ciò che è, e soprattutto nella sezione mai scontata di una fotografia sulla Storia, dove non si dà tale disciplina senza indossare certi panni, senza sentire certi freddi, senza attraversare di notte alcuni vicoli e non altri. La Storia c’è chi la scrive e c’è chi la vive.

Il biografo, che sceglie di raccontarcela in forma romanzata, come una qualunque storia, scrive di chi l’ha vissuta, e scrivendone la rivive egli stesso.

Tensione ed inquietudini

Non è difficile cogliere, dalla voce fuoricampo dell’Autrice, la tensione dell’esilio, dell’esclusione dalla comunità familiare e religiosa del protagonista, delle sue inquietudini amorose sempre in bilico tra il necessario e il possibile, delle sue personali e perse battaglie contro la grettezza autenticamente espressa delle masse e quella ipocritamente concessa dai colleghi; sembra anche che Mimma Leone appaia affaticata quando, di notte, insieme al quasi cieco Baruch, anche lei tornisce lenti: immagini queste che sono come le ancelle allegoriche di tutta la narrazione, perché sottintendono come tutto sia questione di sguardi e di prospettive, e non solo di diottrie. Si coglie, insomma, in questa vista tridimensionale, non solo l’anima di chi è raccontato ma anche di chi racconta, e che lascia così la propria traccia come certi visi a margine di certi quadri, dove l’autore si mescolava – complici i colori – tra gli stessi oggetti del suo ritratto. Mimma Leone – complici i vicoli di un’Amsterdam così poeticamente immaginata – c’è riuscita mescolandosi al buio delle stesse notti del filosofo, dalle quali sarebbe uscita tanta luce.

Sarebbe bellissimo se la stessa penna scrivesse e raccontasse altre anime, altre vite, altri turbamenti e grandezze, altri campi di fiori.

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