Van Straten, addolcire l’inadeguatezza inaccettabile: la propria

Il punto di non ritorno e decadenza di un sessantenne, fra dolori e domande, in un romanzo elegante, ironico, ma anche duro. In “Una disperata vitalità” Giorgio Van Straten cerca, per il suo protagonista, un compromesso tra la più sordida delle ipocondrie e la disperata voglia di ritrovarsi ancora abile al lavoro e alla vita…

Se i cinquant’anni rappresentano una svolta, i sessanta sono, per l’uomo contemporaneo mediamente ben nutrito ed al riparo da pericoli davvero meritevoli di un’insonnia prolungata, un punto di non ritorno.

Epifania d’acciacchi e carico di interrogativi

Un passaggio che per Giorgio, il protagonista di Una disperata vitalità (288 pagine, 18 euro), così come per la gran parte dei suoi coetanei, si accompagna, in modo graduale ma sempre più insistente, ad una pervicace e nutrita epifania di acciacchi, prima quasi del tutto sconosciuti ed adesso capaci di separare, con uno spartiacque molto robusto, la trascorsa età della vigoria, dall’incerto, e con tutta probabilità claudicante, futuro.

Questa ricorrenza sembra una vera e propria forca caudina esistenziale, che il protagonista del romanzo scritto da Giorgio Van Straten e pubblicato da Harper Collins si appresta ad oltrepassare solo perché obbligato, cercando in ogni dove un appiglio che lo aiuti a non affogare, zavorrato com’è, dal pesante carico di interrogativi senza risposta che gli ammorbano le giornate e che sembrano trascinarlo verso un’unica meta, quella della decadenza.

Un’idea al ribasso

Facendo appello ad una razionalità che, diciamolo, non sembra essere proprio il suo cavallo di battaglia, Giorgio rimane seduto sulla tazza del water, dove prova a fare l’elenco dei disturbi che lo affliggono, nel tentativo di trovare un compromesso tra la più sordida delle ipocondrie e la disperata voglia di ritrovarsi ancora abile al lavoro ed alla vita.

L’elenco, in realtà, sembrerebbe includere malattie e patologie, ma in realtà va ben oltre e reca giocoforza il bilancio di una vita. La sua.

Così, mentre si pone delle domande e si dà le risposte che vuole, nell’imminenza del traguardo, Giorgio comincia ad accarezzare l’idea di abbandonare obiettivi velleitari o comunque irrealizzabili, con l’intenzione di accontentarsi di quello che ha e di quello che è, con le sue attività, le sue relazioni, la sua vita a New York, la città più ricca del mondo, dove tuttavia non c’è un bar come quelli italiani e dove le persone non vengono invitate a cena per il solo gusto di bere e mangiare insieme (sic!).

L’idea al ribasso di Giorgio, manco a dirlo, ha vita breve per via di quella insofferenza totalizzante che lo pervade e che lo induce a fuggire da tutto e da tutti, coperto da strategie perdenti e bugie infantili, inutili ripensamenti e sensi di colpa più brevi di un battito di ciglia.

In fuga

I suoi piani falliscono uno dopo l’altro perché – la storia non a caso lo sottolinea – da qualche tempo Giorgio non fa altro che osservare, classificare, catalogare, settorializzare, e soprattutto criticare e giudicare (male) singoli e gruppi, uomini e donne, con giudizi taglienti non risparmiati davvero a nessuno, dalla “maggiorata con capelli ossigenati incapace di articolare un qualsiasi discorso sensato” ai tre tipi di “cazzoni”, distinti in categorie di sciasciana memoria (con termini diversi, però, perché quaquaraquà è intraducibile in inglese). Questo gli fa perdere tutte le battaglie intraprese e, incurante delle ferite, quando la comunità allargata nella quale si muove, per spirito di liberalità o più frequentemente per un proprio tornaconto gli tende la mano per fare insieme un percorso almeno accettabile, scappa senza mai voltarsi, pur di frapporre, sempre, qualcosa tra sé e la resa dei conti (almeno come la intende e dove la vede lui).

La verità, forse, è che con questo gioco al massacro, Giorgio – che rischia di rimanere e perire nella trappola dell’uomo non più giovane che ritiene, sbagliando, di non avere costruito un bel niente e che per questo si azzarda a guardare solo avanti – tenta di edulcorare l’unica inadeguatezza che non è disposto ad accettare: la sua. 

Dopato dal suo desiderio di vitalità, evita di utilizzarlo come giusto contatto con il futuro, e diventa cieco e sordo rispetto ai segnali di conforto che gli arrivano, soprattutto dalla famiglia. Riuscirà ad ammettere le sue debolezze ed a transitare, se non fiero, almeno tranquillo, dal check point che egli stesso si è costruito? 

Romanzo dai mille registri ed imbibito, oltre che di una rara eleganza, di una divertentissima ironia “Una disperata vitalità di Giorgio van Straten è stato presentato al Premio Strega 2022 da Giovanna Botteri.

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