Le scrittrici intervistate da Petrignani? Siamo in debito con loro

Torna in una nuova edizione “Le signore della scrittura” di Sandra Petrignani, nove interviste più una immaginaria (a Elsa Morante), un viaggio alla riscoperta di autrici di grande spessore ma spesso dimenticate. Un libro che rammenta il significato di memoria storica e letteraria. E che ci ricorda come ci sia ancora tanto da fare per superare le differenze di genere almeno in campo letterario…

Nel 1984, alcuni mesi prima della mia nascita, viene pubblicato, per la casa editrice La Tartaruga, Le signore della scrittura. In un breve volume Sandra Petrignani raccoglie le interviste apparse per Il Messaggero, tra l’estate del 1983 e l’autunno dello stesso anno, a nove scrittrici, Lalla Romano, Paola Masino, Alba de Céspedes, Maria Bellonci, Laudomia Bonanni, Anna Maria Ortese, Fausta Cialente, Livia De Stefani, Anna Banti e un’intervista immaginaria a Elsa Morante (ritiratasi dalle scene poiché malata da tempo).

Volume aggiornato e arricchito

A quasi quarant’anni di distanza, Le signore della scrittura (144 pagine, 17 euro) torna nelle librerie in una edizione aggiornata e arricchita. Aggiornata poiché l’autrice ha inserito un’introduzione ulteriore rispetto all’edizione del 1984 nella quale racconta e chiarisce su quale terreno è germogliato questo testo e qual è l’attualità di queste interviste. Arricchita poiché, oggi, possiamo leggere la sezione bio-bibliografica delle scrittrici, una lettera di Anna Maria Ortese (inviata a Petrignani da Laura Lepetit, fondatrice ed editrice de La Tartaruga, pochi giorni prima di venire a mancare nell’agosto del 2021) che ci restituisce un ulteriore aspetto della personalità di Ortese oltre a suggerire l’atmosfera dell’intervista e dell’incontro avvenuto tra lei e Petrignani e un testo su Natalia Ginzburg che è dato dall’unione di tre interviste, sempre per Il Messaggero, avvenute in momenti diversi, «una forzatura che mi permette però adesso, nella distanza e dopo averle dedicato un lungo ritratto ne La corsara (Neri Pozza, 2018), di rimediare a un’assenza oggi inconcepibile».

Lo svantaggio, la grandezza e l’età

Già nella prima edizione, Sandra Petrignani aveva precisato i criteri della scelta e le motivazioni di esclusione (si ricorda infatti che non era presente Natalia Ginzburg): «Dieci scrittrici dalla lunga vita alle spalle, vita che si estende per quasi un intero secolo». Scrive Petrignani nell’introduzione all’edizione del 1984. «Durare è già un merito. Durare e scrivere, un altro. Specie se a scrivere è una donna». Appartenenza e consapevolezza. Le scrittrici scelte da Petrignani sono tutte «consapevoli dello svantaggio e, insieme, della grandezza della femminilità. Hanno, quale più quale meno, sofferto – e lo dicono – di scarsa considerazione, mancanza di potere, esclusione». E poi l’età. Uno dei criteri fondanti delle interviste diventate materiale per il libro che oggi possiamo leggere in questa nuova veste. «Nessuna delle scrittrici qui comprese ha meno di settant’anni, Invidiabile età. La loro giovinezza e formazione affondano in un’epoca che gli sviluppi tecnologici attuali, senza precedenti, allontanano anni luce da noi. Sono dunque in realtà molto più vecchie di quanto l’età anagrafica denunci. Sono testimoni sopravvissute a un mondo completamente scomparso, a un pianeta distrutto (…). Ma se il criterio che le vede insieme in questo libro è banalmente anagrafico, non banale è ciò che consegue a una simile regola. La generazione delle narratrici settantenni e oltre (…) ha veramente caratteristiche peculiari che si riassumono in un modo particolare di riflettere su se stesse e sul mondo e che le accomunano al di là delle molte differenze».

Banti e il romanzo storico

Il viaggio alla (ri)scoperta di queste scrittrici italiane inizia nella campagna fiorentina, nella villa di Anna Banti. Qualche anno fa ho letto i suoi racconti ritrovati, un’edizione de La Nave di Teseo curata da Fausta Garavini che già nell’introduzione ricorda che Banti era una pessima segretaria di se stessa che non ha mai tenuto ordine tra i suoi scritti. E questa donna, distratta e disordinata, amante del Manzoni, in continua tensione verso la parola (la sua scrittura attinge all’arte, sconfina nel surreale, le sue protagoniste spesso controfigure della stessa Banti) la ritrovo nell’intervista di Petrignani che ripercorre gli esordi letterari a partire dalla scelta dello pseudonimo, scelta sospinta da un moto di riservatezza «mi son detta: vediamo come va». Non vuole esporsi e non vuole esporre suo marito, il critico Roberto Longhi. Insieme a Petrignani, ascolto le parole di Anna Banti sul romanzo storico (Artemisia, Sansoni, 1947), sul rammarico verso quelli che erano, all’epoca dell’intervista, definiti romanzi storici, «non basta scrivere fatti storici sulla base di documenti: la letteratura deve saper dire qualcosa in più», oltre alla sfiducia verso il modo in cui il mondo letterario accoglieva le scrittrici, «una scrittrice, anche se di successo, è comunque emarginata. La diranno grande fra le altre scrittrici, ma non la equipareranno agli scrittori». Questa sfiducia, questa acquiescenza a quella che è considerata un’usanza diffusa, la ritrovo nelle parole di Laudomia Bonanni che tratteggia non solo la condizione della donna scrittrice nel mondo letterario ma la situazione di tutto il settore in quel periodo. «Oggi scrivere non basta più. Uno scrittore per prima cosa deve sapersi promuovere da solo, darsi d’attorno. Non vede? Autori e critici che una volta erano considerati seri, oggi non si vergognano ad avallare sottoprodotti letterari ignorando opere migliori (…). Ma del resto un mondo incrudelito come quello di oggi forse non c’è mai stato e di conseguenza una società letteraria così degradata non c’è mai stata». Non serve sottolineare quell’aura profetica dietro alle parole di Bonanni oltre alla saggezza dovuta all’età e all’esperienza di cui parla Petrignani nell’introduzione alla prima edizione.

Masino e la “rete”, Ortese e il silenzio

Proseguendo il viaggio nella terra di queste scrittrici del Novecento italiano, mi travolge, in particolar modo, l’intervista a Paola Masino. Forse perché ho scritto la tesi triennale su Massimo Bontempelli e Masino era un nome ricorrente o forse perché, negli anni, le mie letture mi hanno portata sempre più verso di lei. Sta di fatto che certe sue affermazioni hanno rispolverato alcuni ricordi universitari e anche più recenti studi: la rivista 900, Malaparte, la Roma dei primi anni Trenta, il suo soggiorno a Parigi con Bontempelli, e poi i ricordi dei loro primi incontri. «Ero molto giovane. Gli telefonavo e facevamo lunghe conversazioni letterarie senza conoscerci. Poi ci incontrammo per parecchio tempo mi ignorò. Però fu lui a pubblicarmi per la prima volta. Un racconto. Uscì sulla rivista “900” che aveva fondato con Malaparte. Così entrai a far parte dei “novecentisti” e a poco a poco ci accorgemmo che fra noi stava nascendo qualcosa. Ma ero minorenne e Bontempelli era sposato. Un reato per quei tempi. Fui mandata “in esilio” a Firenze e lì frequentavo il gruppo di “Solaria” aspettando di compiere ventun anni». Il loro è stato un amore intellettuale e una vera passione come dirà più tardi a Petrignani. A colpirmi sono, altresì, le sue affermazioni circa il ruolo degli intellettuali, la società di massa, la scrittura e il silenzio. «Il problema oggi è che anche i più grandi artisti per entrare nel circuito di vendita, per “piazzare” i loro prodotti, non possono più fare affidamento solo sul valore della loro opera. È necessario un apparato di sostenitori che parlano continuamente di te, che ti citano, che ti pubblicizzano, che ti invitano in televisione, alla radio. È necessario essere continuamente presenti sulla scena, scrivere sui giornali, e via dicendo. Questa rete porta con sé naturalmente una serie di legami, di amicizie che servono e quindi toglie attendibilità ai giudizi letterari o artistici. Ma l’alternativa al compromesso è silenzio, povertà, oscurità. Non tutti si sentono di fare una scelta così poco produttiva. Anna Maria Ortese l’ha fatta, per esempio». Se lascio Paola Masino, dopo qualche pagina incontro proprio Anna Maria Ortese che Petrignani è riuscita ad avvicinare solo telefonicamente e tramite corrispondenza. La voce di Ortese è viva, piena di consapevolezza, è tenace e risoluta. Ortese parla del suo silenzio con grande apertura, racconta del suo bisogno di capire le cose del mondo e capire se stessa. Ortese racconta di un percorso caratterizzato da salite e discese, un percorso che la vede in uno stato di dolce inquietudine, come la definisce Petrignani. «È la sensazione quasi costante di trovarmi in un luogo ignoto, non mio assolutamente, e della cui serenità sono anch’io, in un qualche modo, responsabile». E poi ancora: «Sento che vivere è viaggiare, e viaggiare è crescere. Sento che occorre un mutamento nel paesaggio. Sento che è fondamentale un mutamento nel cuore».

Il “peso” di Laura Lepetit

Leggendo le interviste contenute nel libro Le signore della scrittura sono forti gli echi di quella Milano degli anni Sessanta, quella Milano che si sveglia ogni giorno al grido del miracolo economico italiano e nella quale tre donne hanno mosso i primi passi. Parlo di Anna Maria Gandini, Vanna Vettori e Laura Lepetit, assidue frequentatrici della libreria al civico 2 di via Verdi, che rilevano l’attività nel 1962 trasformandola in quella che poi sarà conosciuta come la Milano Libri. Insieme, Gandini, Vettori e Lepetit, hanno voglia di scoprire, di fare spazio a voci nuove, di lanciare proposte, di parlare di libri. È questa l’atmosfera che si respira a Milano in quel periodo. Forte di tali idee, Laura Lepetit, che nel frattempo viaggia in Italia e all’estero venendo a contatto con figure di spicco del femminismo italiano e internazionale, scopre che Le tre ghinee di Virginia Woolf non è ancora stato tradotto in italiano. Lo farà Lepetit stessa. «La Tartaruga è nata così». Oltre a Le signore della scrittura, non avremmo potuto leggere alcuni scritti di Virginia Woolf, Edith Wharton, Francesca Duranti, Silvana Grasso, Silvana La Spina, Elizabeth Bowen, Doris Lessing, Clarice Lispector, Grazia Livi, Patrizia Zappa Mulas, Lidia Ravera, senza il lavoro di cura, dedizione e passione che Laura Lepetit riserva ai libri e alla sua casa editrice.

Un’Italia che non c’è più

Le signore della scrittura è un libro prezioso che restituisce uno spaccato di un’Italia culturale e letteraria ormai scomparso e che la mia generazione non ha potuto conoscere se non apprendendo informazioni dai libri. Il volume è ancora più prezioso perché raccoglie la voce di scrittrici italiane uniche nel panorama del Novecento che lamentano spazi risicati e poca autentica riconoscenza. Scrittrici «brave, sì, ma fra le donne».

A distanza di quasi quarant’anni, possiamo dire di aver superato le differenze di genere almeno in campo letterario? Si può parlare a cuor leggero di un prima e di un dopo? Una frase di Sandra Petrignani, nell’introduzione a questa aggiornata e arricchita edizione, sembra rispondere alla domanda: «la strada da percorrere è ancora lunga e per questo le interviste raccolte suonano tanto più attuali». Un libro che racconta il debito che abbiamo tutti noi, donne e uomini, nei confronti di queste scrittrici del Novecento italiano, un libro che rammenta il significato di memoria storica e letteraria e l’impegno nel portare avanti la parola di coloro che ci hanno preceduto. 

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