L’oro nero di Pasolini trent’anni dopo Petrolio

L’omosessualità di Pier Paolo Pasolini tra le pieghe del suo leggendario libro postumo, “Petrolio”. Fu il primo intellettuale moderno italiano per il quale si possa parlare di “identificazione omosessuale”, un abito indossato su pressione del sarto (la collettività). Per Pasolini l’omosessualità è una sorta di prostituzione sacra, in grado di tramutare magicamente le bassezze in altezze. Ma quel rabbioso prendere e pretendere l’ombra del piacere cercava invano di compensare l’impossibilità di riceverlo e di offrirlo nella luce

Sentirsi superflui o un errore della natura nel perpetuo fluire delle generazioni può uccidere lentamente come un veleno, offrendo a una mano assassina un corpo incline al colpo di dis-grazia. In una lettera da Casarsa del 15 agosto 1947 a Silvana Ottieri, cui si sentiva legato da una amicizia eccezionale, il venticinquenne Pasolini la pregava di non allarmarsi, “per pietà”, di fronte alla parola omosessualità: “Pensa che la verità non è in essa, ma in me”. Certo, tra il detto e il taciuto v’è sovente un abisso, nel quale precipitano i vissuti e i pensieri; ma a fare la differenza è la qualità delle relazioni, se siano giardino coltivato o selva oscura, alcova o postribolo. Da tale punto di vista Pasolini è stato un omosessuale “comune”, la cui straripante notorietà ha aggravato l’oggettiva impossibilità di risolvere la questione del rapporto tra omosessualità e società, poiché nessuna impresa solitaria può districare una trama di psicologia collettiva per lo più inconscia.

La folgore del sesso fine a sé stesso

Assimilabile per poliedricità a grandi figure rinascimentali e capace di rappresentare la cultura di un intero Paese, nel privato non è sopravvissuto alla folgore del sesso fine a sé stesso (“La luce dello scandalo è sempre troppo forte”, diceva nella prefazione dell’inedito giovanile Amado mio).
Va considerato che ai suoi tempi il mondo maschile era saldamente ancorato al militarismo nella sfera sessuale, dietro la facciata benpensante e civile. Nel postumo Petrolio (pubblicato nell’ottobre 1992 da Einaudi e ora rièdito da Garzanti) l’autore descrive un gruppo di provinciali col ghigno sdegnoso, tutti tenuti a serrare le fila generando un’entità assoluta in cui credere e alla quale obbedire. Incrinare l’intesa con un sospetto bastava ad attivare la risposta punitiva: “Gli altri avevano subito infilato nella fessura, apertasi nella coscienza del sensibile amico, il coltello della loro naturale ferocia, e l’avevano allargata” (Appunto 8). E poco oltre, comparendo sullo sfondo, sottolinea che la maggioranza di mediocri non tollera la superiorità di pochi dotati di talento: “Si tratta del miserabile formicolio di uomini antropologicamente inferiori che proclamano il loro diritto alla storia offrendo il ricatto in cambio del loro servilismo: e provengono dalle parti basse in tutti i sensi della nazione” (Appunto 20). A dire il vero non erano molto diversi i suoi ragazzi di (mala)vita. Difatti rimpiangeva le belle nuche tosate da soldato, lavorate dal rasoio che fa risplendere la virilità, deprecando le capigliature del post-sessantotto, i giovani “acconciati come su laide maschere, con tiraggi, frangette, ciuffi arrotolati” (Appunto 59), “con quei loro capelli da puttane, con codini e ricciolini” (Appunto 60). 

Di necessità virtù e vizio

Fatto sta che Pasolini rappresenta un unicum rispetto a personaggi similari in area europea e statunitense nei medesimi anni, il primo intellettuale moderno italiano per il quale si possa parlare di “identificazione omosessuale”, un abito indossato su pressione del sarto (la collettività), facendo di necessità virtù e soprattutto vizio. Nell’epoca preconsumistica il costume di scena era la bisessualità, una prassi diffusa in tutta l’area mediterranea, potendo albergare ovunque, nei corridoi delle istituzioni civiche e religiose, nelle aree grigie del cameratismo maschile, negli interni sottratti agli sguardi, nelle zone franche di boschi e fiumi. Ciò si è espresso pure nella letteratura e nell’arte, associando la tematica a livelli culturali elevatissimi aggirando l’esplicita connotazione.
Riletto dal presente e senza agiografia, quindi con ri-spetto (cioè, guardando due volte con attenzione), Pasolini rivela come un libro stampato alcuni nodi critici che strangolano la personalità di tanti omosessuali. Nella sua versione la sessualità è una modalità paradossale di accumulare deprivazioni, una mutilazione relazionale in un deserto di diletto: “Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli incontri / non sono che momenti della solitudine / la solitudine è ancora più grande se una folla intera / attende il suo turno: cresce infatti il numero delle sparizioni” (Versi del testamento, Charta). Il culto della passione sensuale, professato da Pier Paolo e da legioni di intellettuali gay, rende purtroppo ciechi circa gli esiti di una pratica per lo più meccanica e scadente, persino poco soddisfacente. In effetti, proprio perché condizionato da un approccio non razionale e onirico, l’Eros andrebbe omaggiato sul piano simbolico e non concreto, reputando la profonda intimità psicosomatica un tempio profano da visitare con prudenza.

Sovrastare o sottostare

In Pasolini, specie da un certo punto in poi, in piena “cattività”, prigioniero del ruolo di provocatore e del pubblico ludibrio, a dispetto della rivendicata mitezza, risalta nella lingua e nelle immagini la costante preoccupazione di sovrastare o sottostare, agire o subire mortificazioni, mescolando stimoli sessuali e dolorosi. Il sadomasochismo e la promiscuità seriale sono del resto forme di denigrazione, una maniera di farsi neri per esaltazione narcisistica invertita, laddove l’eccitabilità è il rovescio della frigidità. In più l’esteta è talmente focalizzato sui sensi da rendere il dolore dis-piacere di cui godere, nonché a trovare gratificazione nel dis-piacere altrui. L’erotismo allora può diventare tomba della sessualità, come si è visto con drammatica chiarezza in America, con tanto di manuali di istruzione sulle sevizie in chiave sexy. Ne è stato vate Edmund White, che ha definito outré l’estremismo sviluppatosi nelle metropoli statunitensi sino alla deflagrazione dell’Aids. Quasi fosse un punto d’onore, White ricorda in Ragazzo di città (2009) che Robert Mapplethorpe, da bravo cattolico, credeva nel diavolo e sussurrava al partner di turno durante l’atto: “Fallo per Satana”. Perciò Pasolini gli appare precursore del fotografo deceduto di Aids, avendo secondo lui in Salò o Le 120 giornate di Sodoma “celebrato due dei più grandi peccati o crimini nel mondo omosessuale: il satanismo e la pedofilia”.

L’attrazione per lo scontro

Ciò nonostante Pasolini teneva a ribadire di odiare il Potere, inteso nella veste economica e politica, pur subendone il fascino ed esercitandolo sotto mentite spoglie. Nel testo postumo si legge: “Il Fascismo è l’ideologia dei potenti, la rivoluzione comunista è l’ideologia degli impotenti. I potenti sono anche carnefici, gli impotenti sono anche vittime” (Appunto 67). Se i giovani maschi tendono a servire i capi, è per usufruire della loro potenza e trarre beneficio dalla stabilità del sistema gerarchico. Altrimenti non resta che il ruolo di vittima, escludendosi dal gran banchetto paterno che è “la ripetizione gloriosa della vita come Passato”. Una condizione evidente nella gioventù protestataria, priva di senso di appartenenza, propensa ad abbandonare il campo e disertare. Pasolini, invece, si compiaceva di giocare a pallone e misurarsi con le nuove leve, cercando un collegamento col corpo sociale maschile, coi suoi riti di possesso fisico e spirituale, remora attaccata allo scafo o parassita simbiotico. Era attratto dallo scontro diretto e materiale, le sensazioni forti da brivido e da paura, mettersi le mani addosso con doppia valenza, rischiando di farsi e fare male, assaporando il gusto di arrendersi e perdere.

Il perenne fanciullo

Nel suo atteggiamento di sfida si può altresì cogliere un desiderio di superiorità nei confronti del genitore, col concorso materno: “Il rapporto con mio padre era infernale. Mi faceva pena, aveva sbagliato tutto: nazionalista, filofascista, prima sul fronte francese, poi prigioniero in Etiopia. È tornato che era uno sconfitto”. È su tale base che nella famosa Supplica a mia madre giustifica l’essere destinato ad accoppiamenti estemporanei puramente fisici; ed è sempre a mamme mediocri, senza cuore, che nella Ballata delle madri viene attribuita la responsabilità di aver tirato su maschi vili, servili, feroci. Nella medesima raccolta, Poesia in forma di rosa (1961-1964), si ribadisce che la sua lingua riflette una fantasia “di figlio che non sarà mai padre”, votato ad ardere per “i figli in squadre meravigliose”, sparsi in pianure, colli, vicoli, piazzali. I giovani sono i futuri adulti generatori e lui è il perenne fanciullo, perché non supera la prova essenziale della fraternità almeno negli atti sessuali. Per inciso Alessandro Spina nel 1963 usa il termine “ragazzate” per riferirsi agli atteggiamenti di Pasolini, sottolineando di non approvarli. In Una polemica in versi (Le ceneri di Gramsci) l’interessato si dà del pazzo: “Ché dovrei tacere, non offrire il fianco, / non confessare che sono un ragazzo, / ancora, eternamente indifeso; / che non sempre la passione è grazia”.

Il complesso di castrazione rispetto al ’68

Va notato che l’erotizzazione si correla alla “puerizia” psichica, perché identificandosi come piccoli e imbelli, con aspettative solo libidiche, non si può venire accusati di volere nuocere o recar danno al prossimo. Proponendo di dare fiori ai poliziotti dopo gli scontri a Valle Giulia del 1968, Pasolini mirava dunque ad avvalorare l’idea della funzione ludica dell’omosessualità, perché, se il guerrafondaio è eterosessuale, l’omosessuale è pacifista per principio, dato che vorrebbe far l’amore e non la guerra. Nel suo caso fare sesso con gli avversari e i nemici, i tutori dell’ordine costituito eterosessuale. Un’illusione pagata a carissimo prezzo.
In Petrolio, a parere dello scrittore “summa” di tutte le sue esperienze e memorie, si ipotizza che sia l’amore per i virgulti del popolo a rendere loro succube il protagonista Carlo, che si comporta da femmina sino alla metamorfosi del pene in vagina (Per la Parte II). In realtà, è il complesso di castrazione rispetto alla generazione del ’68 a spingerlo verso la trasformazione transessuale, che rimane privata e ignota (sotto i vestiti). Soltanto diventando “donna” può svolgere fino in fondo la funzione venerea, vedersi riconosciuto e utilizzato senza limitazioni quale oggetto sessuale. Il processo inizia all’interno della personalità con la scissione tra padrone e servo: quest’ultimo è delegato a compiere il lavoro sporco omosessuale, fino a condotte infime e degradanti. E l’eros “mendicante” di cui parla Nico Naldini, cugino di Pier Paolo, ben descrive l’atteggiamento degli omosessuali intenti a raccogliere le elemosine sessuali dei ragazzi (meglio se indigenti o bisognosi), mossi dall’appetito e incuranti delle conseguenze. Pasolini difatti attribuisce alle donne moderne dei primi anni Settanta “un’aria mendica, quasi di omosessuali in cerca di umilianti occasioni” (Appunto 60). Perché nel suo strabismo l’omosessualità è una sorta di prostituzione sacra, in grado di tramutare magicamente le bassezze in altezze.

Possedere ed essere posseduto

In un passaggio cruciale (Appunto 65) si opera una distinzione netta tra possedere ed essere posseduto. Per chi lo agisce il coito è un atto episodico, violento, necessario, ma parziale, nel quale ci si limita ad appropriarsi di un punto delimitato di un corpo, valutato un quantum. Il vissuto del penetrato, viceversa, si apre sulla dimensione di infinito, mediante il pene Qualcosa o Qualcuno si impadronisce di lui, lo riduce “a un nulla che non ha altra volontà che quella di perdersi in quella diversa Volontà che lo annulla”. L’individuo si sente investito dal Tutto attraverso il genitale e la sua brutalità (“che non conosce pietà, mezzi termini, rispetto, proroghe”), e vive come un Bene chi lo possiede, forse in virtù del sacrificio e del dolore. Infine, l’essenziale per l’autore: “D’altra parte, è fuori discussione che il Possesso è un Male, anzi, per definizione è Il Male: quindi l’essere posseduti è ciò che è più lontano dal Male, o meglio, è l’unica esperienza possibile del Bene, come Grazia, vita allo stato puro, cosmico”.

Ciò spiega il percorso iniziatico di Carlo quale passaggio attraverso l’inferno per raggiungere il paradiso, nel quale si trasfigura e mistifica la perversione “dando al cuore la palpitazione della gioia cieca, quella che doveva essere raggiunta anche a patto di morire” (Appunto 10 bis). La contrazione nel suo ventre è tale “da desiderare di correre qualsiasi rischio – anche la morte – pur di trovare pace per un solo istante: di ricevere nel vuoto spasimante il pieno guaritore, la manna, il carisma” (Appunto 62). L’amplesso è dunque un dramma criminale, per il penetratore un “momentaneo desiderio di uccidere, calmatosi improvvisamente con l’eiaculazione” e per il penetrato “l’adempimento di qualcosa di contrario, la messinscena del suo desiderio di morte” (Appunto 63). Va notato che nel film Salò la sequenza in cui il gerarca viene sodomizzato appare patetica per via del calco di gomma che accresce il pene del ragazzo, in modo che possa apparire enorme amplificando l’effrazione e il ribaltamento di ruoli, nonché la divinizzazione e l’irrealtà.

Un singolare sacerdozio

In parallelo, non senza spudoratezza, Pasolini ambiva alla cattedra e al pulpito, per dare lezioni e addirittura dettar legge, grazie al “privilegio di pensare”. Un’onnipotenza da sovrano illuminato, insegnante di provincia assurto al ruolo di professore dell’intera società, a costo di apparire cattivo maestro. È in controluce l’intellettuale, cattolico di sinistra in odore di santità, che attira giovani, ottiene prestigio, rispetto, venerazione, di cui si parla in Petrolio (Appunto 34 bis). In Poesie mondane (21 giugno 1962) aveva già celiato sul suo singolare sacerdozio:

Lavoro tutto il giorno come un monaco
e la notte giro, come un gattaccio,
in cerca d’amore. Farò proposta
alla Curia d’esser fatto santo.
Rispondo infatti alla mistificazione
con la mitezza

Tragica latitanza della tenerezza

Una discreta dose di falsa coscienza, dato che il masochista non è mosso da bontà, anzi, gode del sollecitare il sadico e fargli compiere il male, dargliene l’occasione offrendosi quale parte offesa. Non basta non usare la forza fisica per credersi miti, non c’è bisogno di brandire un’arma per nuocere, non c’è uomo moralmente innocente. Pertanto il sovrastimato senso di colpa di Pasolini non era di esclusiva pertinenza etica, se mai un tormento nevrotico che non poteva condurre ad alcuna “redenzione”. Purtroppo la tenebra interiore era nel frattempo cresciuta a dismisura, poiché è impossibile non venir contagiati e contaminati dalla sistematica frequentazione, per giunta solitaria, delle terre malariche dell’eros. Quel rabbioso prendere e pretendere l’ombra del piacere cercava invano di compensare l’impossibilità di riceverlo e di offrirlo nella luce. Perciò nel suo singolare rosario si contemplano soprattutto stazioni dolorose di materia: “solo fino all’osso”, “le passioni recidive”, “la carne senza freni”, “i ricordi della miseria”, “il cuore quasi animale”, “un interno dominio della volgarità”. Tragica latitanza della tenerezza.
Avrebbe qualcuno potuto trattenerlo con un abbraccio? Fargli intendere che non era vera gloria l’immolazione, il vassallaggio ambivalente alle “frotte di sbandata ragazzaglia umanamente infette”, maschi “con bassi diletti” e “misere mete” (Serata romana, La ricchezza), che di letizia naturale e popolare non avevano nulla?
Ma oramai Pier Paolo è trapassato, conta solo il Poeta che continua a risorgere con le belle bandiere delle parole. 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *