“La quinta generazione” è l’opera seconda di Dante Arfelli, scrittore di grande successo negli anni Cinquanta, finito nell’oblio proprio dopo la pubblicazione di questo romanzo. I suoi protagonisti, figli di pescatori, indifferenti al contesto storico in cui vivono, superano fascismo e seconda guerra mondiale, ma incompiuti, non hanno certezze. Il loro destino prefigura quello di Arfelli, scrittore cruciale ma senza una collocazione nell’atlante letterario italiano
Dante Arfelli è un po’ il nume tutelare della giovanissima casa editrice readerforblind, dove la collana dedicata alla nuova narrativa contemporanea si chiama, anche un po’ ironicamente, come il suo primo romanzo, I superflui. Il ritorno in grande stile del suo esordio (qui un articolo), che dopo decenni ha di nuovo catturato l’attenzione critica, è stato solo il primo tassello della ripubblicazione della sua opera completa, concordata con gli eredi (è la figlia Fiorangela a tenerne viva la memoria e a curare l’archivio); il secondo passo è La quinta generazione (457 pagine, 19 euro), con prefazione di Davide Bregola, romanzo in qualche modo complementare a I superflui.
La felicità e le fobie
Se I superflui rappresentò il deflagrare di un successo probabilmente inaspettato, un paio di anni dopo La quinta generazione, anch’esso tradotto in alcune lingue straniere, mise praticamente la parola fine alla carriera di scrittore di Dante Arfelli, se si eccettuano alcuni sussulti in tarda età. Come i personaggi di questa sua seconda opera anche l’autore romagnolo si trova sconcertato e inerte di fronte al dolore della vita. L’indifferenza per la società letteraria (che ricambiava…) e la decisione di dedicarsi all’insegnamento sembrano essere alla base della scelta di un lunghissimo silenzio, non solo editoriale. Eppure scrivere, per Dante Arfelli (stesso liceo di Federico Fellini, un anno di differenza), era felicità pura e la decisione fu presa giocoforza allo scrittore. Nel 1994, quando I superflui fu rilanciato da Marsilio, Dante Arfelli spiegò il suo dolore lungo quarant’anni in un’intervista a Paolo Crepet, pubblicata dal quotidiano L’Unità. “Mi sono ammalato – dichiarò – perché ero ipersensibile. All’inizio questa ipersensibilità mi veniva scrivendo, mi tornavano alla mente cose che mi avevano impressionato: per me la scrittura è stata come l’analisi, mi ritrovavo solo quando mi chiudevo nel mio studio. Poi le parole si sono fatte troppo forti e ho smesso di scrivere. Avevo cercato di affrontare un nuovo romanzo, ma non ci sono riuscito: allora ho pensato che dovevo lasciar passare del tempo, ma ho aspettato troppo e il mio tempo si è riempito di fobie. […] Per quarant’anni ho abbandonato tutto, la letteratura. Giravo da un dottore all’altro, da una clinica all’altra”.
La condizione umana e una gioventù senza ideali
La quinta generazione prova a raccontare l’epoca del fascismo, del suo dissolvimento e del dopoguerra. una gioventù vuota, senza ideali, abbandonata dalla società. Sono sentimenti che Davide Arfelli visse, facendo i conti con una nevrosi depressiva, con le paure (soprattutto della morte), con la voglia di sparire dalla circolazione. L’esclusione e il vuoto esistenziale che facevano capolino nel primo romanzo s’accettano nel secondo, in cui abbandona la dimensione metropolitana per abbracciare quella di un piccolo centro, poco più di un borgo marinaro (dietro cui si cela probabilmente Cesenatico). L’inconfondibile stile secco, senza artificio alcuno, ribadisce una sostanziale opposizione di fondo al neorealismo che imperava negli anni Cinquanta, quando Dante Arfelli – amico di un altro “eretico”, Giuseppe Berto – si affermò, vivisezionando la condizione umana e la sua sostanziale insensatezza, senza panni e pose da intellettuale engagé.
Un dopoguerra senza retorica e l’incompiutezza
Berto e Claudio, figli di pescatori, protagonisti de La quinta generazione, sono vuoti, non credono in nulla, finiscono addirittura per arruolarsi come volontari, dopo una totale indifferenza all’ascesa del partito fascista e, in generale, al contesto storico italiano del tempo. È quasi il caso a indirizzare le loro esistenze. Dante Arfelli rilancia in qualche modo il messaggio del suo primo romanzo e nulla fa per omologarsi a ciò che va per la maggiore. Nella quinta e ultima parte, che fotografa un dopoguerra senza retorica e il ritorno a casa di Berto e Claudio – non più ragazzini vestiti di cenci, autori di furtarelli e poi contrabbandieri, ma rispettivamente uomo d’affari, uno, e prossimo impiegato di banca l’altro – nonostante un’apparente tranquillità, si sente nell’aria un’incompiutezza, un’inadeguatezza e un’assenza di prospettive e certezze, di futuro, che sembra in qualche modo prefigurare l’uscita di scena di un romanziere capitale nel secondo Novecento, ma sempre fuori posto, senza una collocazione nell’atlante letterario italiano. Marsilio, nella seconda metà degli anni Novanta, tornò a pubblicarlo, readerforblind, con le nuove edizioni dei suoi titoli, con introduzioni d’autore, promette di farlo vivere più a lungo.
È possibile ordinare questo e altri libri presso Dadabio, qui i contatti