Il precario di Luca Ammirati? Sfugge all’opacità del mondo

Un aspirante copywriter, giornalista precario e, per hobby, guida a un osservatorio astronomico è il protagonista di “Se i pesci guardassero le stelle” di Luca Ammirati. Un incontro fortuito con una sconosciuta è la chiave di volta della vicenda, che ha più di qualche debito con Sanremo, Calvino e la leggerezza. Il risultato è una storia d’amore fine e delicata, tra situazioni e concetti impegnativi con altrettanti più gioiosi ma non per questo meno evocativi e di minore sostanza

Sanremo, Calvino, leggerezza…

Una terna scivolosa persino per Sabrina Ferilli, la quale, alla scorsa edizione del Festival canoro più amato dagli italiani, ci è inciampata, attribuendo allo scrittore una citazione sulla leggerezza – non sfuggita alle critiche di molteplici puntualizzatori – “rimaneggiata,” per esigenze di copione, forse in maniera un po’ troppo semplicistica.

Ecco perché resto io stessa incredula nel constatare che Sanremo, Calvino e leggerezza sono le prime parole che d’istinto mi balenano in mente se provo ad abbozzare l’incipit della recensione su Se i pesci guardassero le stelle (320 pagine, 10,90 euro) di Luca Ammirati, edito da Sperling & Kupfer

Un pesciolino rosso e le visite guidate

Samuele Serra, il protagonista del romanzo, è un trentenne aspirante copywrighter che vive – ça va sans dire – a Sanremo, dividendo casa con un amico e confidente d’eccezione: Galileo, detto Leo, un pesciolino rosso costantemente aggiornato, attraverso dialoghi talvolta dal timbro sapienziale, sulle delusioni, sogni e speranze del «sensibile, malinconico, spesso insicuro» umano che si prende cura di lui. In attesa che il mondo della pubblicità, per il quale si è formato, gli spalanchi le porte, Samuele sbarca il lunario facendo il reporter -naturalmente con contratto a tempo determinato – per la redazione di “Sanremo punto news”. Nel tempo libero, asseconda la passione per l’astronomia occupandosi del piccolo Osservatorio di Perinaldo, presso cui organizza visite guidate. L’apparizione di una fanciulla misteriosa, cui farà da cicerone in un giro improvvisato oltre l’orario di chiusura, scompaginerà ulteriormente la sua esistenza, resa rocambolesca dalla massiccia dose di precariato e conseguente incertezza circa il futuro che società e mondo del lavoro gli impongono. Dissoltasi nel nulla senza lasciare altra traccia se non l’impronta di un bacio a fior di labbra su uno specchio, la fuggitiva diventa per Samuele, al quale è “entrata sotto pelle”, una dolce ossessione. La trama del romanzo, che in questo primo evento dell’incontro fortuito con la sconosciuta trova il suo spunto d’avvio, si sviluppa così, con grande armonia e piacevolezza, intorno alle disavventure e alle delusioni lavorative nonché amorose del protagonista, fino all’auspicato, pacificante epilogo.

Ma ritorniamo alla nostra terna di partenza.

Sanremo

Evidente fin dalle primissime pagine del romanzo che Sanremo è consustanziale alla storia. Luca Ammirati, oltre ad esserci nato e viverci, vi svolge, parallelamente all’attività di scrittore, quella di responsabile interno della sala stampa del teatro Ariston. Legittimo dunque il desiderio di valorizzare al massimo la città, elevandola oltre il ruolo di semplice ambientazione. Una carta che entrambi, Luca Ammirati e Sanremo, si sono giocati benissimo. Rilevo e sottolineo che il primo non ha mai deteriorato la sua scrittura, nonostante siano tantissimi i dettagli riferiti, deviandola da romanzesca a “tirata” da vademecum turistico. La seconda interpreta la parte di coprotagonista che le è stata affidata in maniera disinvolta, fluida, eppure con gran discrezione. Ogni volta che le viene data la parola, a lingua sciolta, enuncia le sue peculiarità, le bellezze, i vezzi. Comunica stentoreamente, senza però essere mai sovrabbondante e minimamente invadente, il suo carattere, anticipandolo a chi, incuriosito dai ragguagli inseriti tra le righe, volesse mai recarsi in loco a scoprirlo di persona.

Calvino

Dato il contesto geografico, l’entrata in scena di Calvino, assolutamente non scontata, era nondimeno fortemente presagita. Anche in questo caso Luca Ammirati ha dato prova di abilità, inserendolo, anzi, facendolo scivolare dentro la narrazione, con delicatezza. Discretamente. Un gradino – in direzione ascendente – alla volta. «Mi concedo una passeggiata sul lungomare Calvino, all’ombra delle palme». Così lo fa materializzare, evocato quasi casualmente da Samuele – che “parla” in prima persona tutto il romanzo – attraverso un rimando toponomastico. Un esordio minimo che, qualche riga più in là, si amplia a cercare riferimenti, autobiografici e pertinenti allo scrivere, che – sono pronta a scommetterci – valgono tanto per il protagonista di Se i pesci guardassero le stelle, quanto per il suo autore: «I primi ragionamenti intorno alla scrittura, persino i primi spunti per futuri romanzi, Calvino li ha sperimentati non solo nella mia stessa città, ma addirittura nello stesso liceo classico da me frequentato molti anni dopo, guarda caso intitolato a Gian Domenico Cassini».

Leggerezza

Visto che il Lupus in fabula si è ampiamente palesato, ovvero, dal momento che l’evocato fantasma di Calvino aleggia tra le righe, spero non se ne abbia a male il papà tra gli altri di Marcovaldo (ne abbiamo scritto qui), se depredo la prima delle sue Lezioni americane, quella appunto dedicata alla leggerezza, per tirare le somme sul romanzo di Luca Ammirati, augurandomi di non emulare la Ferilli nel ruzzolone.

Così esordiva Calvino: «In questa conferenza cercherò di spiegare – a me stesso e a voi – perché sono stato portato a considerare la leggerezza un valore anziché un difetto (…) Quando ho iniziato la mia attività, il dovere di rappresentare il nostro tempo era l’imperativo categorico d’ogni giovane scrittore. Pieno di buona volontà, cercavo d’immedesimarmi nell’energia spietata che muove la storia del nostro secolo, nelle sue vicende collettive e individuali. Cercavo di cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che mi spingeva a scrivere. Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle».

Contro il demone del pessimismo

Mi pare di poter concludere che la lezione calviniana, meditata con diligenza, sia stata metabolizzata e messa a frutto al meglio, avendo Luca Ammirati trovato il modo di sfuggire alla pesantezza, all’inerzia, all’opacità del mondo. Samuele è il giovane precario del nostro tempo, costretto a surfare costantemente tra i suoi desideri e le reali possibilità che il destino gli propone. Tentando di schivare la sconfitta e la rinuncia, pronte a materializzarsi come necessità economiche e solitudine affettiva, impara una importante lezione di vita e vuole condividerne il succo. Tra le molteplici soluzioni per riferire la sua condizione, evidenziando il sottobosco emotivo da cui è percorso, la più facile sarebbe stata gettarsi nella costruzione di un romanzo dai toni foschi, drammatici, gravosi. Ammirati opta, invece, per una “sottrazione di peso” alla maniera di Calvino. Il risultato è una storia d’amore fine e delicata, in cui sono mescolate con minuzioso equilibrio sentimenti, situazioni e concetti impegnativi con altrettanti più gioiosi ma non per questo meno evocativi e di minore sostanza. Insomma, Ammirati ha dotato Samuele di sogni, istruzione e educazione. Lo ha fatto vivere a metà tra la linea che divide speranze e realtà, ma ha avuto l’intuizione di immunizzarlo contro il demone del pessimismo, conferendogli il dono di credere che esistano soluzioni ai problemi e che si possa approdare alla scoperta di sé stessi. Una scelta che sono sicura gli aggiudicherà il consenso degli altri lettori così come gli ha guadagnato il mio. Dopotutto «l’ottimismo – insisteva Tonino Guerra – è il sale della vita».

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